Turismo sostenibile: alla scoperta dell’Umbria tra i sogni di Monte Castello
L’itinerario sostenibile di oggi ci porta tra i sogni di Monte Castello
Braccio Fortebraccio arrivò a Fratta Todina nel 1416 e appena la vide, così lieve e maestosa alla luce del sole, sopra la nebbia, decise di fermarsi e di fortificare e ampliare il suo castello. Nel XVI secolo il vescovo vi fece erigere una splendida villa che, nel secolo successivo, il cardinale Altieri, anch’esso vescovo di Todi, abbellì con preziosi giochi d’acqua, grazie ad ardite opere di ingegneria idraulica progettate dall’architetto Ludovico Gattelli. Fratta divenne così, anche per tutto il settecento, una specie di colonia arcadica di Todi, le cui famiglie più facoltose vi si stabilivano per la villeggiatura e le famose ottobrate.
Fratta Todina è ancora un giardino sul quale soffermarsi a guardare il giorno imbrunire: i pensieri attendono una grazia, il viaggiatore percorre la strada principale tra le mura del castello e ne rimane coinvolto, spera in un labirinto che lo inganni e che possa fargli dimenticare il tempo, come accade quando si visita il convento della Spineta.
E in questa ricerca il percorso si fa più stretto, le colline si addolciscono, le macchie di colore dai toni pastello si evidenziano; si sale verso Monte Castello di Vibio: i monti, il Martano da un lato e il Monte Peglia dall’altro, delimitano un orizzonte che non supera i mille metri di altitudine.
Siamo nel cuore dell’Umbria. Qui il Tevere percorre sinuoso la vallata e sui colli si scorgono gli antichi borghi medioevali che un tempo furono eretti a guardia del territorio circostante. Si contemplano paesaggi rubescenti al calar del sole, silenziosi, campagne rigogliose, boschi che adombrano i colli circostanti.
Stiamo raggiungendo un paradiso perduto, un’oasi in cui si può veramente vivere secondo i ritmi della natura come scrisse un’antropologa americana, Sydel Silverman, nel suo libro Tre campane di civilizzazione. La vita di un paese di collina italiano (edito dalla Columbia University Press U.S.A.).
Già nel 1565, Cipriano Piccolpasso, provveditore della fortezza di Perugia, incaricato da Papa Pio IV di rilevare le principali «città e castella» delle terre di Perugia, sosteneva che a Monte Castello si viveva «la vita ideale», la migliore che ci fosse perché l’aria era salubre e la gente viveva «anco cento anni e più» e «l’hommini di 80 anni parevano averne appena 35».
E l’aria ti spinge fin dentro il castrum medievale, il vento spira forte e in cima alla collina Monte Castello appare come un locus amoenus, un luogo antico e incantato, silenzioso e fuori dal tempo, nel mezzo della vita, in piedi, tra le capriole delle nuvole: le sue ombre sono, infatti, la Torre Campanaria e la Torre di Maggio, che ospita al suo interno un piccolo museo con stemmi, armi antiche e mappe che si riferiscono al Comune ed al territorio circostante – le scale ripide portano al terrazzo merlato: ecco il colle su cui sorge Todi; sotto, il fiume Tevere si muove con le sue ampie anse, intorno a strade, fra prati, cipressi, colline, declivi. La fonte di questo splendido locus amoenus è il Teatro più piccolo del mondo, ma c’è tempo per arrivarci.
Si entra nel borgo come in preda ad un incantesimo, inseguendo quel giardino dei desideri che già a Fratta Todina aveva fatto sentire il suo richiamo. E, dentro, le vie si allungano, e si incrociano; camminando si scoprono scorci sui quali si apre un panorama equoreo, fatto di vento e luce. Proprio da uno di questi spiragli si vede il Doglio, frazione suggestiva, in mezzo ad un incrocio di boschi e colline.
Le strade dentro Monte Castello sembrano guidarti verso il suo cuore, verso quel piccolo sogno che batte e che ti conquista: siamo dentro il Teatro più piccolo del mondo, il Teatro Concordia: abbiamo raggiunto la fonte che ci permetterà di dissetare l’anima.
Quando entriamo scopriamo uno splendido teatro all’italiana, di 99 posti: tra i palchetti si affaccia un giovanotto, ha l’aria sfrontata, di chi sa già di aver vissuto: è Luigi Agretti, un quindicenne con la faccia sporca dei colori del vento. Siamo nel 1892 e il ragazzo sta affrescando il soffitto; poi si affaccia sulla ribalta Prospero che ci spiega che il teatro è fatto della stessa materia di cui sono fatti i sogni. Infine, Simone, un uomo grande e buono – un poeta, probabilmente, uno che potrebbe farti credere che Monte Castello sia un fumetto – si mette a recitare per il viaggiatore e a spiegare in varie lingue la storia delle origini del piccolo teatro, ci racconta i segreti dei suoi fondali, del telone, ci guida per i palchetti che nascondono echi di suoni e versi, ci fa conoscere gli angoli più reconditi, quelli dove si deposita la polvere delle stelle, che permette ad ognuno di essere attore sul proscenio della vita.
Il viaggiatore, arrivato a questo punto, non vorrebbe andarsene più, preferirebbe perdersi per ritrovarsi, magari, in un’ombra dimenticata, in uno spazio antico; vorrebbe finire in un incantesimo, come accadde a Rinaldo nel giardino di Armida. Rifiuta le ali che gli offre Dedalo, spezza il filo di Arianna, perché, in questo labirinto dei sogni che è Monte Castello, il viaggiatore non ha nessuna intenzione di cercare l’uscita.