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Guida per riconoscere le tue sante

Intervista a Chiara Tagliaferri

C’è bisogno di sante. Le sante che io ho trovato nei libri e nei film mi hanno sempre salvato la vita.

 

Sarà il caldo di fine agosto, o i miei occhi che faticano al trapasso dalla penombra del lanificio al sole, o forse quella certa luce che a quest’ora filtra di sbieco attraverso i rami del noce, riverbera sull’acqua e mi confonde, ma la prima volta che la vedo contemplare il canale, alta e flessuosa, mi viene in mente l’Esterina di Montale

noi ti pensiamo come un’alga, un ciottolo

come un’equorea creatura

che la salsedine non intacca.

L’abito lungo con maniche ampie, di seta viola, cade in morbide volute, e accompagna la grazia cadenzata con cui si muove. Sul petto le ciondola un medaglione tondo, dorato, che i capelli biondi e lunghissimi, appena ondulati, svelano e nascondono. Vederla con le slippers a punta leopardate indugiare per le vie del mio paese, le stesse in cui fin da bambina ho visto arrancare gli asini di Nazzareno di ritorno alla stalla, Peppe aprire con vigorose mandate il portone del mulino, dove ho corso d’estate dalla chiesa al fiume centinaia di volte, provoca in me uno stridore inatteso, uno stordimento quasi di sogno.

In testa ha una paglietta, uno di quei copricapo da canottiere che negli anni ’20 anche le giovani donne britanniche cominciarono a indossare nella loro mise estiva. Appese al braccio, una borsa di pelle nera, una shopper zebrata e una giacca turchese. E se le ribelli, le streghe e le sante si riconoscono per la loro stravaganza – dove “vagare extra” sta per errare, muoversi fuori da un determinato perimetro o allontanarsi dalla via tracciata -, penso di non aver mai visto santa più riconoscibile di Chiara Tagliaferri. Antico e moderno, gotico e fantastico coesistono in lei come in certe ambientazioni in cui gli anacronismi fanno piegare il tempo su sé stesso e avvicinano mondi.

La guardo muoversi e osservare quello che la circonda con stralunata inerzia, quella di una creatura venuta da un paese fantastico e lontano, comparsa qui per uno sbaglio di natura, e che pure non lascia trapelare spavento, come se attraversare soglie tra reale e immaginifico fosse ciò che le riesce meglio.

La aspetto poco oltre l’ingresso del lanificio, e quando si accorge, capisce e mi viene incontro, quello che dicono le mie parole – non io, io se potessi direi qualcos’altro, qualcosa di intelligente o quantomeno di appropriato –, quello che dicono le mie parole senza che possa controllarle, con la naturalezza quieta di quando si constata un fatto, un evento atmosferico, piove, c’è il sole, stamattina non ho fatto colazione, è «Sei bellissima», con il solo risultato di comunicarle qualcosa di superfluo, sciocco.

È divertente, a ripensarci ora, che poco dopo, di fronte a centinaia di persone assiepate l’una all’altra, accaldate, in piedi, in ascolto dalla strada attraverso le finestre, avremmo parlato insieme di tante questioni legate al femminismo intersezionale, e che il mio apprezzamento, il mio primo rivolgermi a lei, pareva aver tradito e mandato all’aria in sole due parole tutta la decostruzione del patriarcato, del male gaze, degli stereotipi di genere che ci vogliono prima di tutto belle, insomma tutti quei principi che con grande adesione avevo cercato di fare miei nel corso degli ultimi anni.

Eppure, in quel «Sei bellissima» erano racchiuse per me una quantità innumerevole di cose che avrei voluto dirle senza sapere come, dopo aver letto il suo libro Strega comanda colore, dopo aver ascoltato avidamente tutte le stagioni di Morgana e la sua voce intrecciata a quella di Michela Murgia, dopo aver sentito di essere parte insieme a lei e a una comunità intera di un dolore che non avrebbe potuto sanarsi mai, di una rabbia che non avremmo potuto acquietare mai. Ed era come se nella sua esteriorità, nei suoi occhi enormi posati su di me, in quel modo raffinato di sedere e di parlare, negli anelli portati al mignolo e all’anulare sinistro, fossero condensate tutte le sue sante di cui mi ero nutrita per preparare quell’intervista, come se potessi incontrarle tutte lì insieme in una sola volta, quelle scrittrici e donne che, in vario modo, avevano fatto delle loro parole e dei loro corpi, ostentati, sferzanti, provocatori, uno strumento di lotta, di rivendicazione, di educazione a un nuovo tipo di sguardo che ci facesse finalmente libere.

Di quello che avremmo detto poi, passando da Emily Brontë, a Buffy l’ammazzavampiri, al “mal bianco” di Piacenza che si annida nell’anima, fino a Louisa May Alcott e a Zelda Sayre Fitzgerald non c’è bisogno che ne scriva qui. Vale la pena ascoltarlo dalla sua viva voce, in un video che testimonia, come ci insegna Michela Murgia e come ricorda Chiara Tagliaferri, che il dono della parola può essere uno “sbergo favoloso”, l’arma più potente che abbiamo a nostra disposizione.

Biografia

Maria Palma Cesarini si è laureata in Lettere con una tesi in lingua e letteratura latina. Nel 2018 si è diplomata in scrittura creativa alla scuola Holden. Attualmente vive a Torino, dove insegna letteratura e porta avanti il progetto culturale Fluminamea che, in collaborazione con Umbria Green Festival, ha dato vita al format Risorgive Letterarie. I suoi racconti sono usciti su Atomi, Retabloid, Bomarscé, OMNI e Vitamine Vol. A.

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