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Il paradigma femminista come alternativa possibile all’attuale modello di sviluppo

Eravamo un mare. Particelle d’acqua agglomerate, strette vicinissime, che a perdita d’occhio inondavano le strade e i portici, la pizza, il vialone centrale e i controviali. Bambini seduti a cavalcioni sulle spalle, anziane e giovani che fianco a fianco ritmavano col tamburo i nostri canti, coperchi di pentole suonati come piatti orchestrali, chiavi alzate a formare uno sciame ronzante verso il cielo, e guance di uomini, ragazzi, donne marcate con strisce di rossetto – uomini come mio padre, donne come mia madre -, cartelli colorati tenuti in alto e cori all’unisono, grandi fuochi accesi in mezzo alla strada e alla piazza attorno a cui stringersi per commemorare, distruggere, farsi cenere e risorgere, specchi stradali parabolici che riflettevano il nostro procedere, i balli nel bel mezzo della folla come un flash mob e il battere di centinaia di mani al suono dei sassofoni, tutte e tutti uniti come un unico corpo brulicante delle nostre molteplicità, un corteo, una festa, un grido feroce di rabbia, una marcia funebre con occhi pieni di pianto, un’avanzata bellica, un esodo, la trasmigrazione di un intero popolo verso una terra nuova da costruire insieme.

Il 25 Novembre scorso, in occasione della Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, le strade e le piazze d’Italia sono state protagoniste di una mobilitazione senza precedenti. Oltre mezzo milione di presenze a Roma per l’iniziativa indetta dal collettivo attivista Non una di Meno, quindicimila a Torino, migliaia di giovani, donne e uomini di tutte le età che da nord a sud hanno manifestato pacificamente insieme.

Per molte e molti, a fare da catalizzatore sarebbero stati principalmente due fattori legati agli ultimi fatti di cronaca: in primis, i giorni intercorsi tra la scomparsa di Giulia Cecchettin e il conclamarsi del femminicidio, un tempo lungo che avrebbe portato l’opinione pubblica a confrontarsi e a schierarsi, tra chi caldeggiava l’ipotesi della “fuga d’amore”, difendendo Turetta come il tipico bravo ragazzo incapace di azioni violente, e chi invece aveva già preannunciato il tragico e sistemico epilogo, denunciando tutti i segnali premonitori e i colpevoli ritardi con cui le forze dell’ordine avevano predisposto le indagini nei confronti dell’ex fidanzato. La tensione dell’attesa sarebbe poi sfociata nell’evidenza che, ancora una volta, l’ipotesi della violenza di genere era stata presa sottogamba, trattata con superficialità, minimizzata. Su quest’onda, le dichiarazioni rilasciate in diretta televisiva da Elena Cecchettin, sorella di Giulia, hanno saputo coraggiosamente e lucidamente raccogliere un dolore immenso, che pur da lontano ci toccava tutte e tutti, e convertirlo in denuncia, in materiale propulsivo per non rendere vano quanto accaduto, gettando semi di coscienza proprio in quei canali mediatici che prima di allora non avevano saputo accogliere niente del genere. Ed ecco il boom di richieste di aiuto alla help line violenza e stalking 1522, con un incremento che dalle 200 chiamate giornaliere è passato alle 500 in meno di una settimana, il moltiplicarsi di post virali sui social, di appelli, dichiarazioni da parte di tutta l’opinione pubblica. Molti sono stati gli uomini, anche del mondo dello spettacolo, che in risposta al consueto ritornello giustificatorio “not all man” hanno scelto di prendere posizione, di esporsi, riconoscendo finalmente la necessità di concorrere tutti e tutte insieme ad una riconversione culturale che scardini un sistema di violenza consolidato e ormai normalizzato. Un sistema patriarcale e maschilista che basa la propria sopravvivenza sulla disparità di genere, ancora oggi constatabile a tutti i livelli della nostra società.

Secondo il World Economic Forum, per colmare il divario globale nella parità di genere, se si continua a questi ritmi, ci vorranno ancora altri 135,6 anni. E nonostante ciò, a livello mediatico si tende ad enfatizzare la quasi raggiunta eguaglianza, facendo riferimento ai numeri sempre crescenti delle donne attive nel mondo del lavoro, nei ruoli di spicco, nell’imprenditoria e nella ricerca. Ma è davvero sufficiente la corsa alla crescita dei numeri delle donne in posizioni di rilievo?

Se le donne nel mondo del lavoro o in politica hanno progressivamente quasi equiparato il numero degli uomini, la qualità della loro partecipazione resta spesso profondamente diversa. Non solo laddove permane una significativa differenza retributiva a pari livello formativo e di posizione, ma anche quando la donna riesce a raggiungere posizioni apicali: la percezione culturale della presenza attiva delle donne in luoghi in cui si assumono decisioni di rilievo non è ancora percepita infatti come una necessità per il bene comune. La sensazione è che ci senta appagati dai numeri in crescita, come ad aver fatto bene il compitino, ma senza aver capito il bisogno profondo dello sguardo delle donne nell’economia, nella società, nella cultura, nella politica.

Al punto 5 dell’agenda 2030, l’ONU la definisce la parità di genere come “non solo un diritto umano fondamentale, ma una base necessaria per un mondo pacifico, prospero e sostenibile”. E cosa vuol dire “sviluppo sostenibile” se non la constatazione che l’attuale modello di sviluppo ha decretato universalmente il suo fallimento? Per il rapporto di dominio e sfruttamento sulla natura, prima causa dei cambiamenti climatici, per l’accentuarsi dei conflitti e delle guerre dovute alle enormi disuguaglianze economiche, per i flussi migratori determinati dall’impoverimento naturale di interi territori del pianeta, per un modello economico e uno stile di vita incompatibile con la salute, con lo sviluppo demografico, con il rispetto dell’ambiente, con il patto tra le generazioni. Il progresso tecnologico ed industriale degli ultimi due secoli è stato improntato sul predominio maschile, sul linguaggio maschile di interpretazione del mondo. La competitività sfrenata come strumento di crescita, il continuo superamento dei limiti hanno portato l’occidente al raggiungimento di un grande benessere economico, ma anche a enormi e non più sostenibili ferite ambientali e disuguaglianze. L’atteggiamento di dominio sulla realtà, da rapporto creativo è degenerato in uno sfruttamento dissennato delle risorse del pianeta.

In tal senso l’impegno di cura – che ancora oggi viene attribuito alla donna come connotato “di natura” e non come conseguenza sociale del ruolo impostole – potrebbe diventare una risorsa straordinaria per la transizione: se non limitato e costretto negli spazi angusti della casa e non confinato alla sola assistenza o attività pedagogica, ma allargato nel suo significato simbolico all’intero sistema-mondo, la sguardo accudente rappresenta un autentico ribaltamento della logica di dominio e di prevaricazione – sugli esseri viventi, sulla natura, sull’intero ecosistema – che ha da sempre contraddistinto l’intervento dell’uomo, specificamente nella sua componente maschile.

Dunque la sfida della sostenibilità si gioca proprio sulla capacità e possibilità di tessere trame relazionali tra uomini e donne diverse da quelle che finora ci sono state insegnate e tramandate, constatando che non solo il modello di sviluppo fin qui sperimentato, ma anche il sistema patriarcale che lo ha affiancato, ha decretato il suo fallimento.

Una trasformazione tanto complessa ha bisogno, com’è evidente, di tutte le nostre migliori energie per poter essere messa in atto. A partire da azioni immediate come il sostegno ai centri antiviolenza e a quelli che si rivolgono agli uomini maltrattanti, per aiutarli a superare il modello patriarcale maschilista di cui sono intrisi e prospettare loro un’alternativa, passando per una maggiore attenzione al benessere psicologico e alla salute mentale, ancora troppo stigmatizzata, per il riconoscimento e la retribuzione del lavoro domestico, nell’ottica di una riduzione della violenza economica, fino all’uso di un linguaggio e di un’informazione corretta, consapevole e rispettosa. Una strategia sinergica che non può ovviamente fare a meno di fondarsi su educazione all’affettività, alla sessualità e al consenso, capitalizzando il sapere e la conoscenza per abbattere stereotipi, per contrastare le disparità che troppo spesso – in riferimento alle relazioni tra i generi – si traducono poi in prevaricazione, come purtroppo i molti casi di violenza sulle donne stanno a dimostrare.

Nelle nostre scuole, tra le amicizie, nel nostro quotidiano, ascoltiamo ogni giorno storie di giovani donne ancora oggi sotto il giogo di partner che faticano a trovare nuove modalità di relazione con le loro compagne, che appaiono fortemente disorientati e che spesso reagiscono con atti di controllo e possessività. E nella maggior parte dei casi, sono le donne stesse a non avere gli strumenti per accorgersi dell’escalation disfunzionale e pericolosa a cui stanno andando incontro, giustificandola ancora e ancora fino alle estreme conseguenze. I processi di formazione, di educazione e di istruzione, i luoghi in cui essi si realizzano e i protagonisti diventano dunque il congegno regolatore ai fini della riprogettazione dei rapporti tra i generi, le generazioni, le culture, a partire dalle relazioni interpersonali intessute fin dall’età infantile, per estendersi poi alla coppia, alla famiglia, alle istituzioni scolastiche e universitarie, fino ad allargarsi alle differenti comunità di appartenenza.

Il concetto di cura possiede al riguardo una pregnanza che non a caso è stata ampiamente approfondita nel dibattito pedagogico. Scrive Mortari: “Costituisce un dato fenomenologicamente evidente che la vita non è un evento solipsistico, poiché è sempre intimamente connessa alla vita degli altri; per l’essere umano vivere è sempre con-vivere, poiché nessuno da solo può realizzare pienamente il progetto di esistere” (2015, p. 35). Ecco allora che la sostenibilità non può fare a meno di un nuovo approccio che parta proprio da qui, per correggere situazioni ormai fortemente compromesse e avviare un processo di riconversione oggi quanto mai essenziale, nella consapevolezza che distruggere è molto più immediato, correggere e rimediare ai danni compiuti richiede tempi più lunghi e sforzi maggiori.

 

Foto: Non Una di Meno – Torino

Fonti citate:

https://gruppores.it/legami-tra-la-parita-di-genere-e-la-sostenibilita-sociale/#:~:text=Secondo%20il%20World%20Economic%20Forum,a%20ridurre%20questo%20tempo%20infinito

https://www.altalex.com/documents/news/2021/02/24/ruolo-donne-parita-di-genere-per-sviluppo-sostenibile

https://www.siped.it/wp-content/uploads/2018/07/2018-01-Pedagogia-Oggi-08-Loiodice.pdf

Biografia

Laureata con lode in Lettere con una tesi in lingua e letteratura latina, oggi è docente, esperta di scrittura creativa, curatrice della comunicazione per l’associazione Rasiglia e le sue sorgenti e fondatrice del progetto culturale Fluminamea.
Nel 2018 si diploma in storytelling & performing arts alla scuola Holden di Torino. Pubblica il racconto illustrato Corpus Domini, presentato agli istituti e alla cittadinanza di Foligno in occasione della Giornata della Memoria 2020. Dal 2021 organizza con Fluminamea laboratori, incontri, workshop, performance sulle declinazioni possibili del narrare. In collaborazione con Umbria Green Festival, dà vita a Risorgive Letterarie, un format che coniuga il suo stretto legame con il territorio di Rasiglia ai temi a lei cari della parità di genere e della lotta alle diseguaglianze. Intervista e porta avanti progetti con autor3, intellettuali, attivist3 di primo piano del panorama culturale contemporaneo, muovendosi tra Torino – città in cui vive – e l’Umbria, terra delle origini. I suoi racconti sono usciti su Atomi, Retabloid, Bomarscé, OMNI e Vitamine Vol. A.

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