
DIO O IL SOLE di Marisa Zepparelli – Capitolo IV
CAPITOLO IV
STELLE E DIAVOLI
La mamma, tornata alle otto, si mette a trafficare nella stanza, tanto la cena può aspettare, perché la luce se ne va lentamente.
È stanca, con due ombre sotto agli occhi, e cammina senza guardare nessuno.
Papà e Romano, marito di zia Anna, stanno fuori e ridono.
Mara aiuta la nonna sebbene a malincuore, perché vorrebbe accompagnarsi al fratello che gioca sulle scale del granaio, e da lassù grida:
Vieni a prendermi, se hai il coraggio! Tcuh, Tcuh!… Morto!
La radio snocciola le notizie del giorno e parla dell’Italia che cambia, di quanto sudore e quanti soldi costa la ricostruzione. Ma sopra la ferrovia ci sono ancora le buche delle bombe, dove Nando panzone si nasconde tutto quanto per cantare la serenata a Luciana.
Carlo! – chiama la nonna.
Enzo! – fa uguale la zia.
Le sedie sono sistemate e anche i piatti, il cibo franco dello zio delle mucche. La nonna, per farsi perdonare, ha fritto patate e ranocchie, che sono la gioia di quella sera che scende, con gli alberi che conservano l’alone rosso.
Richiamato dall’odore, Carlo s’affaccia alla porta. Il labbro superiore lo fa somigliare a un negro, alla cintola porta due pistole con cartucciera finta, e pare un pistolero col fuoco nei calcagni.
Vestita di panni freschi, la mamma siede di spalle alla porta e quando vede il labbro del figlio, domanda:
Che t’è successo?
Ho sbattuto co’ Enzo – risponde Carlo.
Non state mai dentro – considera tristemente la mamma.
La nonna finisce di friggere, mentre papà, fischiettando, armeggia con gli attrezzi nel buco:
Arrivo!
Durante la cena, la mamma racconta qualcosa sul tabacco, sulle ore che va accumulando a lire cinquanta cadauna, e che a novembre la pagheranno.
Campa cavallo! – dice papà.
Io… co’ ‘sti figli non campo più – scoppia all’improvviso la nonna. – Oggi ho perso la pazienza, quel labbro a Carlo gliel’ ho fatto io…
Silenzio della mamma, il papà già lo sa.
Quel silenzio è un rumore sotto la terra che però sta ferma e, proprio perché la terra non si muove, la paura cresce.
La mamma si gira verso il figlio a posargli la mano sul labbro e Carlo si tira indietro e chiude gli occhi.
Voi siete pesante – dice la mamma.
Silenzio.
E si può sapere che hai fatto, eh?… Lui non sta mai fermo, non discuto, ma voi perché menate? A un ragazzino! Non gli potete gridare? Sì che la voce vi manca!
M’è scappata la pazienza… Traffica co’ le bestie, rovina l’acqua! Ho perso il lume…
Domani non è più niente – dice il babbo – Così se lo ricorda!
In questa casa hanno ragione sempre quelli! – grida la mamma. – Se sapevo, mi tenevo alla larga e continuavo a mangiare uva e pane, non lo facevo il passo!
E se la mamma non faceva il passo, manco papà, risponde la nonna, e anche qualcosa sulle lenzuola che non erano arrivate e li aveva comprate lei e date a cucire alla Candida, belle grosse che la gente della macchia se le sogna, con una casa piena di buchi mascherati di carta mangiucchiata dai sorci!
Il babbo s’alza a dire che dopo una giornata di rotture è uno scandalo scannarsi in quel modo per un boccatone che domani è sgonfio. Davanti ai ragazzi bisogna stare zitti, senza cavare i panni dai cassetti, ché tutti veniamo da uno stesso posto e finiamo in quel posto.
Mara guarda le briciole sul piatto, le mani della nonna che stringono la forchetta e afferrano il coltello per girarlo in tutti i versi.
La mamma, dopo una serie di strilli, dice che mentre guadagna il pane, gli altri le rubano i figli e la sera che è stanca li trova muti.
E se non vi dicono niente, la colpa ce l’ho io? – chiede la nonna.
Volete dire ch’è mia? – risponde la mamma, puntando le mani sul tavolo e allungando il collo.
Se rinasco non la fo ‘sta coglionata! – sbraita il babbo portandosi le mani ai pochi peli della testa.
Lui brilla in cima al corpo, anche di notte per le strade quando si avvicina a un lampione. Adesso sotto al lampadario pare una fiaccola: gli si vedono anche i fili d’ombra di quei dieci capelli.
La mamma invece ha una capigliatura con attaccatura ferrigna e quando la parrucchiera le pinza le ciocche, ne escono orli come le creste delle pietre.
Carlo da un pezzo se l’è squagliata, tanto non c’è più niente da mangiare.
La mamma ha gli occhi bagnati, ma non tira fuori il fazzoletto, ogni tanto piega la testa e la manda a strusciare sulla spalla.
La nonna si alza e volta la schiena, perché lei non ha tempo e se sbaglia è per troppo bene, e la preoccupazione che venga a mancare qualcosa.
È cosa deve mancare, se c’è gente a riportare i soldi? Sono i soldi a cambiare la vita, dice la mamma, davanti al papà che la guarda scuro:
Tu fai la vita mia, sempre fuori… ma riporti i soldi e invece io mi diverto. Qui devi stare! E allora li puoi crescere, i figli.
Devono crescere come dico io, che m’è mancato il necessario. E senza soldi è impossibile!
A Mara non è concesso di sgattaiolare fuori, e intanto s’è fatta notte e lei non è ancora sul prato vicino alle canne.
Il papà ha gli occhi di un disperato e ogni tanto si gira verso la nonna, poi scende a guardarsi i piedi, che stanno comodi dentro i sandali da frate cappuccino. La mamma riprenderebbe se lui continuasse, ma finire così è una sconfitta. Le donne che sono deboli non hanno problemi, sciolgono i nodi o li ingarbugliano. Se potesse sferrare un cazzotto da qualche parte, il grugno di quella donna militare si allenterebbe e lui potrebbe togliersi dalle scatole come niente.
Mamma, le donne che hanno detto, oggi? – domanda Mara.
Le solite cose – risponde lei.
Lunedì ci vai a lavorare?
Se potevo fa’ festa ero una signora!
E se stai a casa che succede, sentiamo – chiede papà. – Gino ti licenzia?
La mamma non dice niente e si alza per mettere in ordine.
Adalgisa c’era oggi, mamma?
Torna martedì, il suocero sta male.
Martedì non torna, mamma, m’ha detto che lunedì non si torna, e manco i giorni dopo.
Ne inventa di cotte e di crude… Deve sta’ attenta, perché il padrone con le oziose che fanno le gatte va poco d’accordo!
Tu le conosci le storie di Adalgisa?
No, e manco le voglio conoscere. Le donne che non tengono la testa sul collo finiscono male e ci mettono di mezzo il mondo.
Io ci credo… mamma!
Perché stai sempre dietro alle chiacchiere e le persone serie non lo fanno!
Adalgisa dice che so’ brava e seria …
E ti domanda anche di papà?
Il babbo interviene con polso fermo:
Falla finita, se’ ridicola!
Ti bruciano i tizzoni sott’ ai piedi? – risponde la mamma inviperita.
Prima dello sviluppo della nuova fase della rissa, Mara con balzo ferino guadagna la porta della cucina, spalanca il portone e raggiunge il greppo.
Fuori le voci si chiamano da luoghi anche lontani e due gruppi stanno al fresco davanti all’ultima porta prima del granaio e di fronte alla tenda della zia Anna, a destra e a sinistra della quale si allungano file di vasi.
Dove vai? – chiede la zia.
A fa’ due passi.
Perché non scendi sulla strada?
Mara, senza quella sentinella, riuscirebbe a vivere meglio.
Tanti strilli, stasera – canzona la zia.
Dopo venti passi, Mara comincia l’esercizio di equilibrio sopra uno dei binari, e non si distrarrebbe per nessun’oca che la beccasse sulla testa. Ci vede e non ci vede, ma ormai la zia è sepolta dal greppo. Al ritorno farà la strada che passa per le buche delle bombe.
Tornata all’altezza delle canne, Mara sta per attraversare la ferrovia e sdraiarsi finalmente a cento metri dalla casa, quando i cani cominciano ad abbaiare come una muta che insegue il fuggitivo, ma appena lei si distende si acquietano, perché in quel modo fa parte della terra e non scombina l’ordine delle cose.
La luce della cucina è ancora accesa e dietro le mattonelle di vetro dell’acquaio, c’è l’ombra della nonna che inventa le faccende per dare tempo alle furie di placarsi e alla fresca sera di entrare ad occupare le stanze.
Il gruppo del fratello sotto le scale del granaio dà botte alle inferriate.
La sua casa che perdura nel silenzio si spegne all’improvviso e sparisce anche la nonna.
Dietro le canne che appena stormiscono, Mara può ridiventare forte e, se apre le braccia, ancora più forte sopra l’erba fitta. Ruotando braccia e gambe, sente l’erba per tutta la rosa dei venti e può immaginare una distesa sterminata d’erba, non dico grande quanto il mare ma quasi. Accanto e sopra le lenzuola, le stelle sono in ascolto, che stanno sulla punta del cielo, dove c’è la calaverna. Una volta Mara aveva cominciato a contarle, ma non ci aveva provato più. Oltre a delimitare i tunnel, le stelle si raggruppano in disegni, e questo si legge in tutti i libri. Talvolta, per finirne uno tutto suo, Mara pescava stelle lontane tra loro e siccome le altre, benché inutili, non si spostavano, il disegno le si ingarbugliava spesso. Adesso però si ferma su figure semplici.
La compagnia del cielo è una trasfusione: dall’infinito, verso quella fiduciosa bimba distesa dietro le canne, convergono linee di forza che liberano dai ceppi del pensiero, dagli abissi. Le stelle conferiscono bellezza ad oggetti e movimenti, che invece dal sole sono macchiati, perché non hanno l’ossessione della verità, gli basta un accenno d’immagine, un’ombra per essere contente.
Da qui a lunedì ci sta un giorno… più una notte e mezzo giorno, e se il sole ammattisce, non mi ruba questo spazio, il silenzio… Nel tempo delle stelle non entra il sole! Domani e dopo, penserò alle stelle grandi – le piccole formano una foschia di miliardi e non dico che non contano – ma se tengo fisso il disegno delle grandi stelle, il sole non riuscirà a entrare!
Il crocchio delle persone accanto alle scale del granaio si infittisce: sono arrivati Ines e il marito, un uomo scolorito piegato verso destra.
I ragazzacci non giocano più sotto le scale e il crocchio discorre tranquillo.
La nonna è piazzata in mezzo, sopra la sedia della camera.
Mara dal greppo può sentire le risate, le sbattute di mani quando non basta la parola a esprimere meraviglia o sconcerto.
Dapprima le voci sono un brusio scontato, il palpitare di un corpo vivo nello spazio, e vanno d’accordo con le stelle che da lontano non sentono un’acca. Ma siccome lei si trova, sì e no, a cento metri dal gruppo che parla fittissimo, anche accavallando i discorsi, dopo un po’ quel cielo, prima così stratificato e ricco di figure, le diventa una tavola inerte, zeppa di punti luminosi senza capo né coda.
Mara siede coi piedi sull’erba – d’estate le stelle si guardano senza scarpe – e gira la testa alle lenzuola larghe sui fili, a un tiro di fionda dal crocchio. Lentamente, con le scarpe in mano, si dirige al monticello di terra sotto le lenzuola stese, e qui si ferma.
Ines racconta del maiale di Pavilio scappato per la strada di Santa Maria, lasciando Pasquale col coltello in mano. Un maiale gigantesco, che portava la ciccia alla disperata oltre il ponte di mezzo.
Nessuno del gruppo ride.
Antonia, per non essere da meno, attacca il pezzo forte:
Gigino, due anni fa, ha fatto scoppiare il maiale.
Un’altra volta questa?
Un animale dal corpo delicato, che si rimpinzava di cibo e gli venivano le coliche. Gigino allora pensa al clistere, prende la pompa del verderame, la carica e… pompa pompa, gli scoppia il maiale. Quando la moglie l’ha visto, non lo riconosceva! So’ uscite anche le dame e per poco non svengono.
Stamattina ne ho incrociata una – dice Peppe – che camminava sugli ovi. Pippo ci more.
Sempre più secco – si preoccupa la nonna – e giallo. La donna solenne, con poco movimento della persona, nasconde il diavolo!
Che mi piacerebbe inchiodare – interviene Giocondo, nel gruppo da appena cinque minuti.
Si ferma poco, di solito. Piglia i discorsi e li tira dalla sua. Se qualcuno si gira a rispondergli, qualche volta non lo trova.
Satana è fino… e non si chiappa. Anche quando sei sicuro che sta nella vigna e fai la strada larga per arrivargli da dietro, è già sparito.
Com’è fatto, Giocò? – chiede Peppe.
La cosa che mi fa più schifo è la coda!
Invece io non sopporto le zampe – dice il marito di Ines.
Lo incontrate tutti i giorni? – chiede Annalisa.
Stamattina, nella stalla, c’era una luce strana tra l’ultima mucca e il muro… Sono tornato poco dopo, mi sono avvicinato e ho fatto appena in tempo a vedere una coda che spariva…
Vede sempre code.
Adesso basta co’ le code! – dice Peppe.
Nando cammina verso il gruppo, bilanciando il peso cospicuo a destra e a sinistra, con la testa lontana un miglio dall’estremità della pancia.
Eccone un altro!
Giocondo si avvia verso il fiume senza salutare nessuno e poco dopo è ingoiato dalle acacie.
La notte non dormi? – chiede Ines a Nando.
Vo a casa quando Luciana quasi è sveglia.
Domenica è arrivato un uomo…
L’ho visto.
E secondo te cosa veniva a fare?
A Sesto manca il tempo per l’amore, e non canta mai.
Però è bello. – obietta Ines.
Nando – dice Annalisa – vince tutti, perché conosce un solo amore.
Domani è domenica – esce Nando. – e non ci sto alle buche. Comincio la guardia lunedì.
La guardia di che? – gli chiede Peppe.
Nando è con gli occhi per aria, col piombo della pancia che tira verso terra.
Le sedie e i banchetti battono in ritirata, Ines e il marito salutano spicci, e Antonia lo stesso. Annalisa guarda verso l’albero del fico per controllare se il marito torna, così per abitudine, poi sparisce dietro al portone.
Quando Nando esce dall’incantesimo, vede Mara sopra di lui, con le lenzuola dietro, e chiede:
Tu quando la cominci la guardia?
Mara risponde:
Io l’ho cominciata da un pezzo!
Lunedì sono al solito posto…
Vatti a nascondere ch’è meglio!
Ti do il mondo con la neve, se ci vieni.
Prima cosa dicevi, di lunedì?
Quando?
La nonna chiama a voce bassa dal portone:
Stai ancora fuori? Mi sembri un fantasma, davanti a ‘sti lenzuoli!