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Capraia, L’isola che c’è

Uomo libero, sempre amerai il mare!
È il tuo specchio il mare: ti contempli l’anima
nell’infinito muoversi della sua lama.
E il tuo spirito non è abisso meno amaro.

Celebri sono i versi di Les fleurs du mal ove Baudelaire canta il suo amore per il mare. Specchio ideale dell’animo umano, inizio, fine o un tutto da abbracciare l’elemento che lo compone è l’Alpha e Omega del nostro mondo e della vita stessa. Da sempre l’uomo cerca di addomesticarlo, con scogliere, boccaporti, banchine, bacini di carenaggio nei porti, sfidandolo con la navigazione, sognandolo alcune volte, immaginando oltre la linea dell’orizzonte terre sconosciute e incontaminate, lontane dal frastuono delle città congestionate e inquinate, un luogo ideale, immaginario ma non per questo meno bello e privo di fascino, insomma la celebre l’isola che non c’è.

A due ore e quarantacinque minuti di navigazione da Livorno, nel bel mezzo dell’alto Mar Tirreno, nella parte più settentrionale dell’Arcipelago Toscano, il più grande parco marino d’Europa, dove si respirano storie antiche, miti e leggende di navigatori e pirati, un grande parco mineralogico all’aperto fatto di paesaggi diversi e acque cristalline, si trova l’isola di Capraia. La sua sagoma si erge dal blu profondo del Santuario dei Cetacei contraddistinto dalle praterie di Posidonia dei suoi fondali, il tratto di mare tra Sardegna, Toscana, Liguria e Francia che per le sue eccezionali caratteristiche indotte dalla morfologia e dalla circolazione delle acque è una delle zone a più elevata biodiversità. L’isola, altrimenti persa nelle brume e nella lontananza è visibile a occhio nudo dalle coste toscane solo nelle giornate limpide e terse spazzate dalla Tramontana o dal Libeccio.

Fatta eccezione per le Pelagie e Pantelleria fra le isole minori è l’isola italiana abitata (la terza per grandezza dell’Arcipelago Toscano) più distante dal continente, trovandosi a 64 km da Livorno al cui porto è collegata giornalmente ed essendo quella più distante dalla terraferma dell’arcipelago, trovandosi in maggiore prossimità alle coste francesi della Corsica che si trova a soli 31 km di distanza, oltre ad essere il comune italiano meno popolato fra quelli con sbocco al mare, 376 abitanti dice la fonte Wikipedia, ma i capraiesi assicurano di contarsi in poco più di cento anime residenti, facendo eccezione per i mesi estivi quando la popolazione dell’isola arriva a raggiungere fino a 1800 abitanti e gli stanziali isolani giurano di sentirsi soffocare e voler fuggire.

Capraia è citata da Dante nel Canto XXXIII dell’Inferno ove auspicava che si spostasse insieme alla Gorgona e andasse a ostruire la foce dell’Arno in modo che affogasse i pisani, verso i quali si abbandona a una violenta invettiva per quanto fatto al loro concittadino, il Conte Ugolino, definendo i suoi abitanti la vergogna dei popoli di tutta Italia e biasimando le città vicine che non si decidono a punirla.

Visitare l’isola delle capre durante i mesi invernali (il nome deriva proprio dalla presenza di capre selvatiche sin dall’antichità e oggi estinte – àighes: Aigylion – Αιγύλιον in greco antico, mentre l’etimo latino capraria deriva a sua volta dal termine etrusco capra che significava dire roccia in omaggio al suo essere aspra e rocciosa) permette di apprezzarne a pieno la bellezza naturale e l’unicum dell’aspetto sociologico e antropologico che la contraddistingue.

Lasciando il porto di Livorno, dopo un’ora scarsa di navigazione, dopo aver oltrepassato le Secche della Meloria, già sede della più grande battaglia navale del medioevo occidentale, nella quale la contesa fra le Repubbliche Marinare di Genova e quella di Pisa che ne uscirà ridimensionata e segnerà l’inizio del declino di quella toscana, dirigendosi in via longitudinale direzione sud-ovest verso l’isola della Gorgona, altra e forse ancor più romita e solitaria isola dell’arcipelago, è come se calasse un sipario, geografico e sentimentale, qualcosa finisce e qualcos’altro inizia: il litorale toscano scompare mentre ancora dalla prua della nave che punta dritta verso le rocce vulcaniche della Capraia ancora non si riesce a scorgere il profilo delle sue alte scogliere. Il frastuono del continente, le occupazioni e i vari, minimi o massimi problemi che là si trovano sembrano poter essere lasciati indietro, un velo di foschia e il profondo azzurro del mare sembra poterli far dimenticare e in modo naturale questi svaniscono in dissolvenza.

Il profumo intenso della vegetazione dell’isola raggiunge i navigatori in avvicinamento quando ancora in mare. L’imboccatura del porto li accoglie con delle grandi vasche a griglia che sono allevamenti di spigole e orate. È la pesca, come del resto ovvio, la principale attività economica dell’isola, non solo quella di allevamento ma anche quella lungo i suoi trenta chilometri di costa che porta sulle tavole degli isolani prelibati muggini, dentici, ricciole, per non dimenticare i totani ai quali è dedicata una grande festa di fine stagione, a inizio novembre con la Sagra del Totano che si svolge sulla banchina del porto. Facile capire l’importanza della pesca per il mare che si scorge da ogni lato, anche percorrendo a piedi i sentieri interni rigorosamente deserti come si conviene a un’assolata giornata di fine gennaio e che si snodano tra terreni impervi che non lasciano spazio a colture di alcun tipo fatta eccezione per un piccolo appezzamento al centro dell’isola in località Piano, un breve tratto di pianura incastonata fra costoni rocciosi nel quale si ricava il prezioso vino Aleatico la cui ristretta produzione è curata da un’azienda agricola dell’isola. In questa località si giunge dopo circa mezz’ora di cammino dal paese arroccato a ridosso del Forte di San Giorgio. Di turisti nemmeno l’ombra, non come a luglio o agosto quando sarà invece facile rendersi conto che quel migliaio di abitanti temporanei in più, per lo più abitanti nelle seconde case del borgo che si affaccia sul porto e la baia di Porto Vecchio poco più in basso, a circa 800 metri di distanza, costituiranno proprio la rendita dei capraiesi per i lunghi mesi invernali ai quali gli stessi anelano volendo custodire gelosamente la bellezza incontaminata della propria terra e la loro solitudine.

Vivere Capraia significa percorrerla a piedi, per quanto concesso dalla sua aspra morfologia che permette di fare un giro ad anello al suo interno nella parte centrale, con il mare da ogni lato sempre sullo sfondo, mentre gran parte delle cale e insenature sono accessibili solo via mare. Il periplo dell’isola percorribile in circa mezza giornata è segnato per buona parte da stretti sentieri e muri a secco che diventano camminamenti. Questi si snodano tra una fitta macchia, tra fichi d’india, erica, le sparute ginestre, corbezzoli, immersi nell’intenso profumo che danno le piante aromatiche presenti sull’isola quali il mirto, il timo, l’elicriso, la liquirizia, con la compagnia che può dare la timida apparizione di conigli selvatici e voli di poiane e gabbiani reali e gabbiani corsi che qua vengono a nidificare fra marzo e giugno. È ai monaci benedettini che si deve gran parte della costruzione dei tipici muri a secco presenti sull’isola e di quei percorsi in pietra che si inerpicano sugli aspri costoni rocciosi. Sono loro che vi si insediarono intorno al IV secolo dando vita alla prima vera colonizzazione dell’isola e a una comunità di anacoreti in fuga durante le persecuzioni dei cristiani (la Torre dello Zenobito all’estremità meridionale dell’isola rimane la testimonianza della presenza di questi monaci cenobiti) e successivamente costruendovi il nucleo del convento e della Chiesa di Santo Stefano, ora sconsacrata e giacente in stato di semi abbandono nei pressi di località Piano, vicino alle vigne. Al suo interno, in un’urna posta sull’altare polveroso i visitatori lasciano a tutt’oggi biglietti e omaggi a quel luogo: saluti, meditazioni e può capitare anche di leggervi lettere di amanti feriti che sembrano invocazioni lasciate lì nel silenzio come se quella fosse la deposizione di un ex voto.

Ma la presenza umana a Capraia risale a molto prima. I greci furono i primi a frequentarla, poi fenici, etruschi, romani, pisani, sardi, corsi, francesi, tutti popoli affaccendati nei loro traffici marittimi e che in qualche modo hanno lasciato delle loro tracce sull’isola, come i genovesi con i loro palazzi nobiliari dei quali i pochi rimasti si riconoscono ancora oggi nel paese per il loro svettare in altezza e imponenza rispetto alle altrimenti basse e variopinte case tipiche di un borgo marinaro. Proprio ai genovesi va il merito della costruzione del Forte di San Giorgio nel 1540 che svetta sullo sperone di roccia che sovrasta il paese, costruito a difesa delle incursioni piratesche e oggi (ahinoi) proprietà privata. La lunga storia di quest’isola romita e solitaria e che la porta nella sua immutata bellezza fino ai giorni nostri parla dei suoi molteplici passaggi di mano nell’era moderna, dalla Repubblica di Genova che l’acquisterà nel 1562 all’occupazione delle truppe corse di Pasquale Paoli nel XVIII secolo, fino al dominio francese, per poi passare dopo la parentesi napoleonica al Regno di Sardegna nel 1815 e arrivare con la proclamazione del Regno d’Italia a far parte della provincia di Genova fino al 1925 quando passerà sotto l’attuale amministrazione provinciale di Livorno. Livornese è l’idioma oggi parlato nell’isola dalle poche decine di orgogliosi e gelosi custodi dell’identità isolana a dispetto di una lingua (il capraiese) che pare qualcuno dei più anziani fino a qualche decina di anni fa riuscisse ancora a biascicare. Questo almeno è quello che garantiscono i capraiesi odierni con i quali è bello e inevitabile trovarsi a parlare passeggiando nelle deserte strade del paese. Intrattenersi con qualcuno di loro, fuori dalla ressa da tutto esaurito agostano permette di carpire l’anima di questo luogo e dei suoi abitanti. Dai loro racconti, magari semplicemente quelli della titolare dell’unico residence dove poter alloggiare o da quelli del titolare dell’unico ristorante aperto (come si conviene a un giorno feriale di fine gennaio), si potrà capire o solo avvicinarsi ad intuire le motivazioni di chi ha scelto di venire a vivere qua o di chi nascendoci ha pensato di non fuggirne, come hanno fatto quasi tutti. Del ristorante di cui sopra e del quale a chiunque venisse in mente di trascorrere qualche giorno a Capraia in pieno inverno sarà necessariamente avventore, significativa risulterebbe la presenza nella stessa sala adibita ai clienti dei titolari dello stesso, la famiglia intera riunita per la cena, come mangiare a casa loro, e scoprire che la figlia del cuoco, titolare e pater familias, un debordante per stazza e simpatia omaccione di origine pugliese (chissà come arrivato fin qua) il quale non nasconde alcuni coloratissimi tatuaggi sui possenti avambracci, sia l’ultima nata sul suolo capraiese.

Considerando che a occhio e croce la donna avrà non più di trentacinque anni questo la dice lunga sull’andamento demografico dell’isola. Sarà quella donna che confesserà che non lascerà mai l’isola, con un’espressione perentoria e
illuminante: “Io non abbandono lo scoglio”, dovendo ammettere che quando per ragioni burocratiche è costretta a spostarsi in “continente”, sostantivo altisonante per designare la città di Livorno, quando con il traghetto si trova a lambire Le Melorie automaticamente le scatta un formidabile mal di testa, una sorta di mal di terra che si deve supporre solo i capraiesi possano provare. È lo stesso concetto espresso in modo diverso in alcuni versi di una poesia impressa su una lastra di ceramica sulla banchina all’imbarco del traghetto:

E piante e pesci e gente
che passa e dice che ci vuole vivere

o se ne va
per tornare a sognare di tornare
scappa
chi ci vive resta
trova il nuovo nello stesso picco
sole sullo specchio a curiosare
a cercare il proprio cuore
cucito nel mare.

Questa forse la vera anima dei capraiesi, che siano nati qua o che vi si siano trovati per le più svariate ragioni, come il formidabile ristoratore venuto dalle Puglie e che ora vive in questo puntuto lembo di terra con la famiglia cucinando pesce freschissimo e prelibato, lamentando con una sottile punta di autocommiserazione “politica” il fatto di non essere riusciti a fare qualcosa in più per lo sviluppo dell’isola, “un altro centro abitato” dice, “come hanno fatto al Giglio” aggiunge, l’altra isola minore dell’Arcipelago Toscano che pur con una superficie minore di quella di Capraia ha una popolazione di gran lunga superiore. “Se non che mal te ne potrebbe incorre” verrebbe da dirgli, che poi sono gli stessi capraiesi che si risentono se c’è più gente come si può intuire dagli sguardi dei pescatori quando giù al porto vedono attraccare un traghetto con un carico di passeggeri anche solo di poco superiore a quanto si aspettano dalla loro particolare economia sbarchi-imbarchi. Sono loro, i capraiesi, i pochi rimasti, che fanno vivere tutt’oggi alcuni versi del De reditu suo, il poema del V secolo di Claudio Rutilio Namaziano, poeta e politico romano che di ritorno nella nativa Gallia devastata dall’invasione dei vandali approderà nel suo tragitto sulle coste dell’isola lasciandone un vivido ritratto:

Avanzando nel mare già
si vede innalzarsi la Capraia
isola in squallor per la piena
di uomini che fuggono la luce.
Da sé con un nome greco
Si definiscono “monaci”,
per voler vivere soli,
senza testimoni.
Della fortuna, se temono
I colpi paventano i doni.
Si fa qualcuno da sé infelice
Per non esserlo?

 

Questo breve stralcio del poema incompleto del poeta romano sulla decadenza dell’Impero Romano d’occidente si trova affisso come una sorta di manifesto nei pressi della cinquecentesca Torre del Porto che vista nei cangianti porpora, arancio, giallo e verde del tramonto sullo sfondo sembra un monolite preistorico.

In fondo venire a vivere a Capraia o decidere di non fuggirne è legato strettamente al capire ciò che uno vuole e si aspetta dalla vita, che qui ha ritmi, suoni, odori e relazioni diverse rispetto ad altri luoghi più comunemente abitabili. Potrebbe darne conferma la titolare dell’unico residence aperto annualmente per dare alloggio a qualcuno venuto fino a qua anche nel bel mezzo dell’inverno, forse proprio per capire cosa si aspetta dalla vita e scoprire magari che nello stesso vecchio palazzo (forse anch’esso lascito architettonico di qualche nobile genovese dei secoli scorsi) la notte prima ha soggiornato un gruppo di cacciatori di mufloni e che il giorno successivo ne arriveranno altri vista la stagione venatoria che porta al loro abbattimento dopo che sono stati introdotti anni fa per la loro proliferazione. La domanda sorge spontanea: perché prima introdurli e farli riprodurre e poi eliminarli? La risposta naturale che verrà data dagli enti preposti alla loro eradicazione sarà che la loro proliferazione mette a rischio la biodiversità autoctona di un ecosistema già di per sé molto fragile, certo è che non è bello trovarsi di fronte due bei esemplari di queste capre selvatiche dalle corna ricurve mentre in un assolato mattino se ne stanno pacifiche e indisturbate a contemplare il panorama marino con la Corsica sullo sfondo nei pressi dello Stagnone, l’unico piccolo bacino lacustre dell’isola che si erge a 400 metri di altitudine, e pensare che magari da lì a poco saranno abbattuti dalle doppiette autorizzate di qualche cacciatore, con il beneplacito di qualche progetto al cui finanziamento il Parco dell’Arcipelago Toscano è arrivato attingendo da fondi europei preposti, ma tant’è.

Verrebbe da dire ai perseguitati bovidi: “Scappate, nascondetevi meglio che potete, nei dirupi più inaccessibili, fino alla sommità del Monte Castello (la vetta più alta dell’isola, 447 metri) o sul Monte Penne, lì non vi troveranno”. Che poi proprio dal Monte Penne potrebbero continuare a godersi il panorama, il più ampio dell’isola con la Corsica sullo sfondo che sembra poterla toccare, una visione grandangolare che da lassù fa sembrare l’intero mondo così piccolo, quasi da poterlo abbracciare, intuendone la sfericità, il suo essere del resto una piccola sfera lanciata dell’universo, con un pensiero che sorge spontaneo e che fa dire, pensando ancora ai mufloni, che chi non ha rispetto per la natura non ha rispetto nemmeno per sé stesso.

Giunti a quel punto, forse il più estremo e romito di questa già in sé romita isola giungerà anche l’idea del ritorno verso il paese nel percorso ad anello che permette di godere appieno della bellezza dell’isola, fino a che attraversando ancora sentieri ben segnati ma non per questo da non affrontare con prudenza, si aprirà di nuovo davanti il panorama del paese giù in lontananza e una vera e propria strada in terra battuta che è quella che conduce ai terrazzamenti coltivati nei pressi della ex colonia penale. Istituita nel 1873 e in essere fino agli anni Ottanta del secolo scorso, nella Colonia Penale Agricola di Capraia i detenuti erano chiamati a dedicarsi all’agricoltura, alla pastorizia e alla pesca. Degli edifici carcerari oggi rimangono solo rovine e muri pericolanti sui quali qualche anarchico arrivato fin qua ha voluto mettere il proprio sigillo inneggiando alla bellezza delle carceri in rovina, mentre invece la ex direzione è ora sede del Comune. Sembra che alcuni ex detenuti a fine prigionia abbiano deciso di rimanere a vivere sull’isola, in alcuni casi mettendovi su famiglia.

Il paesaggio ora non è più quello aspro e ombreggiato dei camminamenti in pietra dei sentieri tra dirupi o speroni rocciosi ma si apre al grande respiro che dà il trovarsi nella parte più settentrionale dell’isola con di fronte il mare sconfinato, discendendo placidamente verso il paese, con il sole e il maestrale costantemente in faccia che ti appiccicano addosso il sale come se uno avesse preso un bagno, magari nella non distante Cala della Mortola, l’unica spiaggia dell’isola, per quanto sia lecito parlare di spiaggia per un piccolo lembo di arenile ghiaioso che va e viene seguendo il corso dei moti ondosi. Il turismo balneare a Capraia si può esplicitare compiutamente solo se dotati di un’imbarcazione che potrà portare i bagnanti anche a fare un bagno nel cratere del Vulcano dello

Zenobito che affiora a Cala Rossa, un vulcano inattivo che ha dato vita all’isola vulcanica di Capraia. Per chiunque non saprà rinunciare a un bagno nel profondo blu delle acque capraiesi esiste anche un bellissimo sito internet dove reperire utili informazioni per noleggio barche e gommoni o gite in barca. All’indirizzo www.isoladicapraia.it oltre a ciò molte bellissime immagini dell’isola, un bellissimo video a volo radente da un elicottero e consigli, notizie utili e informazioni su ciò che
accade nell’isola, con in più un breve compendio sui motivi per i quali visitarla, fra cui: “Perché la bellezza della natura ti si appiccica addosso”, “Perché qui il tempo scorre diversamente”, “Perché è incanto quando arrivi e malinconia quando parti”

Questi sono concetti validi tutto l’anno per chiunque decida di visitare Capraia, anche nel lungo e “morto” inverno, anche se qualcuno potrebbe far notare che decidere di recarvisi in un mese così fuori stagione non è che sia la scelta ideale, che magari sarebbe stato meglio farlo anche solo qualche mese dopo, a inizio primavera, magari in occasione della Capraia Rock Trail, una gara podistica di oltre trenta chilometri intorno all’isola, alquanto estrema ma che può diventare anche una tranquilla passeggiata ecologica. Il visitatore fuori stagione potrebbe ribattere che il suo stesso modo di essere è sempre un po’ fuori stagione, fuori tempo e fuori dallo spazio consueto e che questo è un po’ lo stesso modo di essere e di vivere dei capraiesi, senza contare che di ogni essere umano mai si possono sondare gli abissi, come non lo si può fare con quelli marini nei quali lo stesso essere umano si può trovare a rispecchiarsi, senza che nessuno possa comprendere dell’altro da quale inferno egli provenga o da dove stia provando a fuggire, e quale approdo, anche se solo temporaneo, geografico o sentimentale abbia costui cercato in un’isola, una possibilità, come in una poesia di Michel Houellebecq, in un luogo come Capraia, un’isola che c’è e che anch’essa diventa un sentimento, come per chiunque decida di visitarla.

Divenuto totalmente dipendente,
conosco il tremito dell’essere,
l’esitazione a sparire,
il sole che colpisce al limitare
e l’amore in cui tutto è facile,
in cui tutto è dato nell’attimo;
esiste in mezzo al tempo
la possibilità di un’isola.
(La possibilità di un’isola – Michel Houellebecq)

Biografia

Simone Bachechi è nato e vive a Pistoia. Proviene da studi di filosofia svolti negli anni novanta presso l’Università degli Studi di Firenze. Suoi racconti si possono trovare su varie riviste e blog online fra le quali Spore Rivista, Verde Rivista, Malgrado le mosche, Spazinclusi, Suite Italiana e sue recensioni, articoli e approfondimenti su Luciallibri, Minimaetmoralia, Lankenauta e CrunchED. Un suo testo è presente sul sito ufficiale dedicato ad Antonio Tabucchi.

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