C’è (altra) vita sul pianeta
L’uomo guarda le bestie con invidia coperta da disprezzo, dice Umberto Saba, perché assecondano la vita e le sue leggi, rivelandone il fondo. La “materia” non raziocinante e non parlante, non giudicabile o imputabile in quanto non responsabile degli atti, è, è stata e sarà, inconsapevole e succube, eppure attiva, agente, diligente nell’esecuzione del programma, osservante dell’intrinseca fatalità. Ciascun elemento assolve al proprio mandato, ogni singola parte è compresa nell’insieme
dal quale è indissociabile, non attende niente, non chiede e non ha bisogno di motivazioni, ragioni, spiegazioni. Uccelli e fiori dei campi, evangelicamente, non tessono e non arano, ciò nonostante sono provvisti di quanto occorre, a loro basta poco, a noi mai niente.
Natura in latino significa “nascita, materia prima, essenza o sostanza”, conformazione e costituzione, una volta “organi genitali” (specie femminili), un eufemismo desueto. Come nazione, il vocabolo deriva da “nātus”, ciò che ha avuto un principio o un’origine, esiste, persiste o diviene, incluse le cose inanimate. Identifica un regno ove tutto quel che c’è è necessario, le varianti non indispensabili cessano in breve e le mutazioni portano a estinzione, una certezza granitica e complessiva, più grande di noi minuscoli lillipuziani, che rasserena e aiuta a rassegnarsi l’essere umano che si
arrovella sulla scelta tra possibilità, il libero arbitrio e il vizio, la facoltà e la schiavitù di darsi delle norme.
Invece di arrampicarsi sugli specchi del senso di un vivere così precario e transitorio, che fa di noi quasi delle ombre appena intraviste in un batter di ciglia, si viene sollecitati ad accontentarsi di dati di fatto al contempo elementari e complessi. L’insensatezza, l’orrore e l’ingiustizia sono vanificati dall’assenza di motivi sociali o storici, e soprattutto dal rimando a scopi imperscrutabili, rendendo più importante lasciarsi guidare fidando nella garanzia universale, fare la propria parte con più umiltà e molto più silenzio, usando la facoltà linguistica che ci contraddistingue con onestà e pudore.
Se in società occorre essere qualcuno e a certe condizioni, nella famiglia terrestre c’è spazio per chicchessia e si è in ogni caso dei signor nessuno, il disinteresse verso le sorti dei singoli garantisce di non far caso e differenza, il mal-trattamento è equanime, gli esemplari si susseguono nella catena per esser presto dimenticati senza offesa “personale”, svolgendo tuttavia un compito utile, se non insostituibile.
In più, si viene ammaestrati a non pretendere di “durare”, assaporando il gusto dell’ora e dell’attimo, quel punto e quel momento di un incessante e inarrestabile girare della ruota, perché tutto scorre e ritorna sotto altra forma. L’annientamento dell’Io biologico e psicologico è pure riduzione a poco o niente di quello che ci angustia e opprime.
La natura è un libro vivente, la sua scuola non richiede banchi e abbecedari, istruisce per immersione ed esposizione, osservando, constatando, deducendo, lasciandosi impressionare come lastre fotografiche, permeati da verità prime e ultime. Un apprendimento indelebile senza sforzo mnemonico, rinunciando alle categorie astratte, risposte silenziose a domande non formulabili.
Prima di scrivere e leggere, l’uomo ha imparato a riconoscere e interpretare i segni e i fenomeni naturali, le maree e le correnti, il firmamento, che gli antichi ritenevano sostenesse il cielo separando le acque superiori dalle inferiori. E prima del timor di Dio ha sperimentato quello del caos, del cosmo e del magma, delle presenze inquietanti intorno, panico infatti viene da Pan, dio dei boschi e dei pascoli, che incuteva timore ai viandanti, per i latini Fauno (che favorisce la crescita), protettore dei campi e delle greggi, anche detto Luperco (Zeus Lykaios, dio-lupo), Fauna è figlia o moglie di Fauno, Flora la dea dei fiori.
La Madre Terra parla di una dimensione antecedente e strutturale, prima della comparsa di qualsiasi forma di vita, non esiste per noi e non è a nostra disposizione, basta pensare che il bagliore stellare ci giunge ad anni luce di distanza, per questo guardare le distese verdi, le scogliere, carezzare il mantello di un animale, abbracciare un albero, sfiorare l’erba fanno sentire che c’è altra vita sul pianeta, base e supporto della nostra. Una parentesi di requie per l’uomo, che non è padrone neppure di se stesso e si pretende padrone degli altri e del mondo.
Nel paesaggio agreste, marino o montano, “incontaminato” o preservato, nel quale ci inseriamo e non imponiamo, contribuendo all’armonia generale con spirito di adattamento e abilità tecniche, come nei giardini perfettamente curati che vogliono dare l’effetto di completa naturalezza, ci si fa possedere e non si possiede. Non si entra per trovarsi bensì per perdersi, facendone un’occasione di spossessamento, la liberazione dall’angustia dei limiti personali.
Proust parla di «vita profonda», che rende i mutamenti stagionali e climatici annunci di altre metamorfosi e nuove possibilità, dando all’espressione «il tempo sta cambiando» una valenza anche esistenziale e psicologica.
Tuttavia, il contesto ci segna e marchia (imprinting), per quanto accogliente sia, occorre lottare per farsi spazio e affermarsi, il modellamento è reciproco, ma impari, l’impatto ambientale è anzitutto quello dell’ambiente su di noi, a cominciare dalla meteoropatia e dai ritmi circadiani.
Non va dimenticato che la cultura è prodotto del telencefalo, ogni cosa umana e sociale ha fondamento biologico. L’animale visivo riflette ciò che guarda (vede), il cervello decodifica e riproietta sullo schermo esterno un film di cui ha composto le sequenze e firmato la regia, con attribuzione di significato e senso, riproduce e ritrae (disegno, artigianato, arte), ricrea (fantasia e letteratura).
I luoghi naturali primari o più significativi vengono interiorizzati, entrano a far parte dello scenario intimo, fungono da filtro percettivo e interpretativo, e vengono in seguito esternati, dando luogo al vissuto di déjà vu.
L’umanizzazione della natura estende a tutto ciò che ne fa parte, a cominciare dagli animali, sentimenti e coscienza degli uomini, usando l’uomo quale stampo. Luminosità, colori, pioggia, vento, sembrano partecipare, piangono, sorridono, calmano, stimolano, sono in sintonia o in contrasto con aspettative e desideri.
La naturalizzazione, viceversa, interpreta l’umano come dipendente dal naturale, usandolo quale riferimento e chiave di lettura. Del resto, da sempre la natura è il supporto dell’espressione, dai graffiti sulle pietre alle incisioni sugli alberi, la pellicola vegetale e il papiro usati per scrivere, la cellulosa per fabbricare la carta, il foglio dalla foglia, di ogni vocabolo esiste la radice.
Tante parole, modi di dire (“una rondine non fa primavera, sentirsi aridi o pietrificati, metter radici, essere in alto mare, la giungla d’asfalto, coltivare le amicizie, le certezze granitiche, essere un somaro o un maiale, un coniglio o un leone”) e termini di paragone (”la pietra di”) traggono origine dal paesaggio e dagli animali, l’ambiente di cui siamo parte integrante e che ci ospita.
Eppure, è quando non abbiamo più parole al cospetto delle meraviglie del creato che tocchiamo il fondo dell’esistere, permeati dal mistero inconoscibile e inesprimibile dell’universo, come di fronte alle migliori opere d’arte sappiamo dire al massimo “che bellezza!”.
Scriveva un secolo fa (il 25 febbraio 1927) Jorge Guillén, docente universitario e poeta, all’amico Federico García Lorca:
«Veniamo da una passeggiata negli orti. Ogni volta penetra in me più acutamente quella che io chiamo felicità atmosferica: perché ci viene dall’aria e dalla luce, la cui tranquilla respirazione – respirazione e basta – calma la nostra insicurezza di vivere. Solo così sono sicuro della pienezza della mia esistenza: mentre respiro quella luce».