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Oltre la siepe. Interminati spazi e sovrumani silenzi: la Natura di Leopardi

Immensa ed inesauribile è la storia della critica leopardiana, come infinita è la bellezza dell’opera del Conte Giacomo e, per molti versi, ancora sconosciute le origini del suo genio e le varie interpretazioni che ci sono state e che ci saranno, che si evolvono continuamente se è vero che anche gli studi più recenti dei leopardisti hanno virato da una chiave ermeneutica legata alla “Teoria del pessimismo” a una “Teoria dei piaceri e delle illusioni”, in piena conformità alla poetica del genio recanatese, legata al piacere dell’immaginazione e al meditare intorno ad esso, verso quelle inesplorate regioni dell’animo che «la siepe al guardo esclude».

Già dalle prime pagine di quell’ «immenso scartafaccio» che è lo Zibaldone, Leopardi indaga in modo finissimo e raggelante la teoria del piacere, scandagliando con la profondità filosofica che contraddistingue tutto il suo pensiero i meccanismi del desiderio, piacere che una volta conseguito l’anima non cessa di desiderare, perché pensiero e desiderio del piacere sono due operazioni continue e inseparabili della nostra esistenza, «da qui l’impossibilità di esaurire con un piacere determinato il desiderio che solo termina con la vita» (Zibaldone, 183). Solo un piacere assoluto lo potrebbe placare ma l’esperienza dell’infinito è «materialmente impossibile» (Zibaldone, 165, 167).

L’inizio del percorso biografico e letterario del giovane favoloso è contrassegnato dagli anni della sua immensa erudizione, i sette anni di «studio matto e disperatissimo», con i suoi precoci studi filologici (oltreché scientifici) iniziati nel 1814, dei quali solo dopo la sua morte si comprenderà appieno il valore tanto che Friedrich Nietzsche dirà: «Leopardi è l’ideale moderno di un filologo».

Fin troppo scolastica la suddivisione della sua opera con gli esordi del poeta civile con opere come All’Italia e Sul monumento di Dante con quello dei grandi idilli. I Canti segnano un percorso che a partire dal 1818 si dipana nel corso di oltre dieci anni, nel quale i motivi della poetica e del pensiero leopardiano riverberano ovunque. Leopardi è per tutti il poeta de L’infinito (1819), dei grandi idilli, il poeta dell’amore di Il Primo amore e Il Pensiero dominante, il grande pensatore per il quale la filosofia è, se non l’unica, la più alta forma di conoscenza possibile, il grande filosofo della natura, letta e interpretata seguendo la grande lezione degli antichi «alla maniera di Luciano», di Teofrasto, di Epitteto e di Lucrezio, il cui materialismo del De Rerum Natura trova tanti echi nella riflessione di Giacomo, proprio a partire dai suoi scritti prosastici quali le Operette Morali, quelle «prosette satiriche» la cui ideazione ha inizio nel biennio 1819-1820 e che nelle sue intenzioni avrebbero dovuto costituire il progettato manuale di filosofia pratica, con la consapevolezza dell’intima imperfezione e crudeltà della natura che in Leopardi non sfocia mai in nessun teismo o senso religioso tale da postulare un’altra realtà perfetta, perché «Tutto è male».

Sono proprio le Operette, a partire dalla prima, Storia del genere umano, quasi un proemio, ad essere pervase dalla visione pessimistica sull’indifferenza della natura alle umane sorti, sul crollo delle illusioni, sull’ «arido vero» e sull’impossibilità della felicità umana. La riflessione leopardiana sulla natura è dirimente in tutta la sua opera. Riduttivo e fuorviante sarebbe volerla associare al mero dato esteriore, benché questa sia osservata e celebrata in tutte le sue espressioni sia nei Canti che nelle stesse Operette. La riflessione sulla natura indaga l’essere e il destino dell’uomo in seno ad essa, una natura «un tempo reina e diva» (Bruto minore), la cui riflessione del Poeta arriva a riconoscere quale «madre di parto e di voler matrigna», «l’unica vera responsabile dell’infelicità de’mortali» (Zibaldone). È la natura di cui parlavano gli antichi, quel mondo così affine alla riflessione e al sentire di Giacomo. È la saggezza degli stoici, degli epicurei e in genere dei popoli che ci hanno preceduto nei secoli fino alla nostra epoca (la sua quella del secolo decimonono, ma quanto mai così vicina alla nostra contemporanea), nella quale domina «la sapienza economica» e «le gazzette, e l’altre ciance politiche, fatte per durare un giorno, un’epoca raggelata nell’eccesso di parole, progetti e propositi, quella fiera delle vanità e delle apparenze che è il vivere in società ove la sorgente di ogni linguaggio è l’amor sui».

Vale concentrarsi, in tal senso, su una delle Operette, Il dialogo di un folletto e di uno gnomo, composta tra 2 e il 6 marzo del 1824, un dialogo che disegna, diremmo oggi, uno scenario distopico nel quale gli uomini sono scomparsi dal suolo terrestre. Lo gnomo, abitante delle profondità della terra, arrivato in superficie incontra un folletto, spirito dell’aria. Domanda lo gnomo al folletto: «Ma come sono andati a mancare quei monelli?» E il folletto risponde: «Parte guerreggiando tra loro, parte navigando, parte mangiandosi l’un l’altro, parte ammazzandosi non pochi di propria mano, parte infracidando nell’ozio, parte stillandosi il cervello sui libri, parte gozzovigliando, e disordinando in mille cose; infine studiando tutte le vie di far contro la propria natura e di capitar male».
Fra i due ha inizio un discorrere scanzonato sulla misteriosa sparizione di una specie predatoria e violenta che aveva ridotto al suo servizio gli animali e tolto autonomia alla natura, esseri, gli umani, con la ridicola pretesa di una favola ambiziosa che il mondo sia a misura d’uomo, anzi fatto per gli uomini, i quali si sono da sempre ritenuti padroni e signori della terra riducendo tutto ai loro scopi, fino a ritenere i pianeti e le stelle «moccoli di lanterna piantati lassù nell’alto a uso di far lume alle signorie loro, che la notte avevano gran faccende». Eppure, ora che gli uomini sono spariti, «la terra non sente che le manchi nulla, i fiumi non sono stanchi di correre» dice il folletto «e le stelle e i pianeti non mancano di nascere tramontare, e non hanno preso le gramaglie» prosegue lo gnomo. Favola o terribile presagio di due secoli fa ma quanto mai attuale, monito perenne su cosa potrebbe essere un mondo senza umani, una terra che ritrova – ma per quale sguardo – la sua bellezza e autonomia.

L’operetta sembra riprendere il dialogo interrotto in Il Dialogo d’Ercole e di Atlante, ove troviamo una terra senza vita, alleggerita «priva di ogni moto e romore sensibile» tale da non mettere più quel «certo rombo continuo che pareva un
vespaio», fornendo una spiegazione razionale all’immagine di una terra tristemente silenziosa. È Il tema del silenzio della natura quanto mai centrale nella poetica leopardiana come meditazione sull’infinità del nulla, e della noia, altro tema fondante, un sentire che appartiene «a quelli in cui lo spirito è qualche cosa» dirà nei Pensieri.

Il silenzio della natura e la sua contemplazione, che è come in poche altre occorrenze in modo così sublime espresso come nel Canto di un pastore errante dell’Asia, con quella silenziosa luna che sorge la sera e «va contemplando i deserti», o come in alcuni versi di La vita solitaria, l’idillio composto tra l’estate e l’autunno del 1821 ove la contemplazione della natura immobile, la «mattutina pioggia», il «sol che nasce», «le ridenti piagge», diviene trasposizione dell’animo del poeta che si acquieta in essa, come già espresso nello Zibaldone, 172: «Un assopimento dell’anima è piacevole…ed è grato perché in quei momenti non è affannata dal desiderio». Silenzio che è la morte delle illusioni, testimonianza de «l’infinita vanità del tutto».

Il dialogo è una satira sull’antropocentrismo che trova appunto espressione nella scomparsa dell’uomo dalla terra esplorata su basi meccanicistiche, una visione materialistica dell’universo e della natura stessa, priva di qualsiasi finalità, spesso ostile, espressione della fallacia di ogni illusione. La purezza incorrotta del vivente, esprime la nostalgia dell’antichità in quanto più vicina di noi, alla natura vergine, all’antichità in quanto giovinezza del genere umano, il celebre primitivismo leopardiano, riscoprire in una parola la natura, uno stato di purezza, vedere come gli antichi videro con occhio puro il cielo, il mare, le campagne e allo stesso tempo un atto di accusa al suo secolo votato all’economicismo (il giovane Leopardi parla del suo secolo ma quanto mai attuale è il suo pensiero). Una riflessione che abbraccia quella sulla fanciullezza sulla quale Leopardi torna a più riprese nelle sue opere, basti pensare nelle Operette a La storia del genere umano, non dimenticando all’interno dei Canti Alla Primavera o delle favole antiche come pure il Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica, o sufficiente all’uopo la citazione di uno dei suoi Pensieri, il CII: «Gli anni della fanciullezza sono, nella memoria di ciascheduno, quasi i tempi favolosi della sua vita; come, nella memoria delle nazioni, i tempi favolosi sono quelli della fanciullezza medesime»

Il richiamo a uno stato primitivo di purezza e è bene espresso ancora nei Pensieri, la formidabile opera che ricalca la lezione dei grandi moralisti francesi e che costituisce una raffinata e disincantata microfisica dei rapporti umani e sociali, in particolare nel LXXVIII, nel quale la sanità, reputata come sommo dei beni, paradossalmente viene fuggita, sanità del corpo legata alla vita in provincia e al suo raffronto con quella nelle città, testimonianza della consumata e irreversibile distanza dalla natura propria del secolo nel quale Leopardi si è trovato a vivere, espressione paradossale di un’epoca che ha la noncuranza del corpo, che ha radice nella costante «spiritualizzazione delle cose umane e dell’uomo proprie della civiltà», così nel Dialogo della Moda e della Morte, ancora dalle Operette Morali.

Il rousseauianismo e la consapevolezza della responsabilità della natura nell’umana infelicità, la certezza di un mondo non finalizzato all’uomo, brulicante di una solida economia di causa-effetto tesa alla conservazione della materia, il ruolo in seno ad essa dell’uomo, «parte abietta delle cose», l’incomunicabilità tra ragione e natura, specchio del drammatico contrasto tra epoche antiche (non barbare) e tempo presente e omologo a quello tra intelletto e cuore in cui si muove l’esperienza del Poeta, non impediscono al materialista Leopardi, affranto dalla materia e dalla sua forza soverchiante, «l’antica natura onnipossente che mi fece all’affanno» (La sera al dì di festa), una riflessione incantata sulla natura che trova la massima espressione nel sublime linguaggio poetico dei Canti. Dalla «diletta luna», presenza muta e antica in Alla luna, associata al motivo della ricordanza per la «travagliosa» vita, alle «Vaghe stelle dell’Orsa» del primo verso delle Ricordanze, osservate dal giovane Giacomo dal giardino del «paterno ostello» del Conte Monaldo, lo stesso dal quale ha potuto godere la «vista di quel lontano mar» e dei «monti azzurri» (i Monti Sibillini che si stagliano all’orizzonte dal palazzo recanatese, ancora in Le Ricordanze), fino alla celeberrima «siepe, che il guardo esclude», la presenza degli elementi naturali è costante negli idilli.

È una natura debordante nella sua immanenza, la cui vivida esteriorità mette in secondo piano la rappresentazione degli spazi interni, i luoghi della sua osservazione, come avviene in opere di altri autori in qualche modo affini al Conte Giacomo, opere nelle quali si respira un intenso afflato metafisico, basti pensare al Deserto dei Tartari di Buzzati nel quale la descrizione della Fortezza Bastiani è appena accennata o a Racconto d’Autunno di Tommaso Landolfi. L’esteriorità della natura allo stesso tempo sembra essere una versione negativa, è una natura che sembra ritrarsi dall’occhio umano dilatandosi, sono le siepi metafisiche, l’altrove, ove «per poco il cor non si spaura», è l’infinito dove «io nel pensier mi fingo», perché se la ragione nega l’amore, l’infinito, l’immaginazione e la forza del sentire giungono lontano, oltre la siepe.

Il pessimismo cosmico, l’indifferenza della natura responsabile delle nostre miserie, la cui colpa non è più attribuita all’uomo che ha distrutto la saggia opera della natura, come dibattono il folletto e lo gnomo, è infatti la natura stessa a essere incolpata di aver gravato gli uomini di un’illusione malefica, si stempera nel messaggio di illuministica solidarietà della Ginestra a dispetto dell’ «arido vero», «Qui su l’arida schiena / del formidabil monte/ Sterminator Vesevo / La qual null’altro allegra arbor né fiore,/Qui mira e qui ti specchia,/ Secol superbo e sciocco». A chi lo accusa di misantropia Leopardi risponderà nello Zibaldone (4428, 2 gennaio 1829) che la sua filosofia di natura esclude la misantropia, di sua natura tende a sanare, a spegnere quel malumore, quell’odio, non sistematico, ma pur vero odio: «La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura e discolpando gli uomini totalmente rivolge l’odio, o se non altro il lamento a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi», riflessione dallo Zibaldone che trova forma anche nei Pensieri (LXXXIX) e che è già il messaggio della Ginestra che si leva nell’aridità della terra e nella certezza della morte, il sapere del male e nello stesso tempo la non adeguatezza del suo linguaggio che sono le inermi e pallidissime verità. Eppure è dal serrato argomentare della Ginestra che si leva alto il canto e l’estremo sforzo di conquista cosmica, benché disperata. Quel «fior gentile» dal «dolcissimo odor» esprime al meglio quel sentimento di «umana compagnia». Allo sgomento cosmico per quei «nodi quasi di stelle» subentra l’esigenza di far blocco contro il vero nemico, contro la natura indifferente e «questo oscuro / granel di sabbia, il qual di terra ha nome» come recita l’esito estremo del canto, liberi nel pensiero, confederati in «social catena», solo in questo modo gli uomini allevieranno il proprio dolore, e la natura forse ci sembrerà un po’ meno matrigna.

Biografia

Simone Bachechi è nato e vive a Pistoia. Proviene da studi di filosofia svolti negli anni novanta presso l’Università degli Studi di Firenze. Suoi racconti si possono trovare su varie riviste e blog online fra le quali Spore Rivista, Verde Rivista, Malgrado le mosche, Spazinclusi, Suite Italiana e sue recensioni, articoli e approfondimenti su Luciallibri, Minimaetmoralia, Lankenauta e CrunchED. Un suo testo è presente sul sito ufficiale dedicato ad Antonio Tabucchi.

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