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Umbria Green Magazine

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Andrew art Baines

Epilogo. Dialogo della natura (e) di un Islandese

Editoriale di Maggio. Seconda parte. E’ possibile leggere la prima parte del Dialogo della natura (e) di un Islandese. 

 

L’uomo era diventato il creatore e manipolatore della Natura. L’islandese capiva che ora possedeva il potere e i mezzi per accelerare l’apocalisse climatica, poteva interferire con le stagioni, sconvolgere gli equilibri del mondo. Pensiero vertiginoso, che faceva tremare le ossa. Questa consapevolezza lo inebriava e lo terrorizzava, ma non ne poteva fare a meno.

“L’uomo sta stravolgendo tutte le certezze di una vita sempre conforme a se medesima, e spogliata di qualunque altro desiderio e speranza, e quasi di ogni altra cura, che d’esser quieta. Nonostante cerchi di restarmene in disparte, vengo sempre più spesso chiamata in causa, e ogni volta è una fitta, una tempesta di dolore, un terremoto che sconvolge e risucchia la vita di migliaia di esseri viventi, un contagio, la peste. Tutto accelerato dall’opera dell’uomo.”

“Posso quasi arrivare a comprendere questa tua lamentela, ma permettimi di dire una cosa: per secoli siamo stati vittime della tua indifferenza ed ora che abbiamo i mezzi per poterla gestire e controllare, oserei dire dominare, tu, Natura, osi lamentarti? Gli uomini non hanno bisogno di te, dei tuoi spettacoli al crepuscolo, dei tuoi giochi di prestigio. Siamo più veloci di te. Abbiamo la tecnologia per poter curare i mali che causiamo.”

“Parli vanamente uomo, come i tuoi fratelli. Nulla ti hanno insegnato le parole che tu stesso hai scritto: quelle parole così chiare e nette che, evidentemente, non rammenti: tutto è vanità.

Ma lasciami dire, lasciami continuare.

A causa della tua opera di conquista mi sono ristretta e contratta in me stessa. Il mio spazio vitale si è assottigliato sempre di più. Ho dovuto cambiar luoghi e climi, per vedere se da qualche parte della Terra potessi non offendendo non essere offesa, e non godendo non patire. Quasi tutto il mondo ho cercato, e fatta esperienza di quasi tutti i paesi; sempre osservando il mio proposito, di non dar molestia alle altre creature, se non il meno che io potessi, e di procurare la sola
tranquillità della vita. Ma io sono stata arsa da un caldo anomalo fra i tropici, dal ghiaccio che si scioglie verso i poli, afflitta nei climi temperati dall’incostanza dell’aria, infestata dalle commozioni degli elementi in ogni dove.

Più luoghi ho veduto, nei quali non passa un dì senza temporale: che è quanto dire che io do in ciascun giorno un assalto e una battaglia a quegli abitanti, non rei verso di me di nessun’ingiuria. Ma non ne posso più fare a meno. In altri luoghi la serenità ordinaria del cielo è compensata dalla frequenza dei terremoti, dalla moltitudine e dalla furia dei vulcani, dal ribollimento sotterraneo di tutto il paese.

Venti e turbini smoderati regnano nelle parti e nelle stagioni tranquille. Tal volta mi sono sentita crollare il tetto sul capo pel gran carico della neve, tal altra, per l’abbondanza delle piogge, la stessa terra, fendendosi, mi si è dileguata di sotto ai piedi; alcune volte ho dovuto fuggire a tutta lena dai fiumi, che m’inseguivano, come fossi colpevole verso loro di qualche ingiuria. Io fuggo da me stessa. Da catastrofi che non so più prevedere e controllare.

Molte bestie selvatiche, non provocate da me con alcuna offesa, mi hanno voluta divorare; molti serpenti avvelenare; in diversi luoghi è mancato poco che gl’insetti volanti non mi consumassero fino alle ossa. Nessuno più mi riconosce, sembra che il mio spirito sia in rivolta con il corpo. Vivo gli stessi pericoli giornalieri che occorrono all’uomo; tanto che un filosofo antico non trova contro il timore altro rimedio più valevole della considerazione che ogni cosa è da temere.

Né le infermità mi hanno perdonata, con tutto che io sono, non dico temperante, ma continente dei piaceri del corpo. Ammiro la vostra ricerca del piacere, voi uomini in questo mi avete insegnato molto: il piacere come tentativo di superare il dolore. Preferite ammalarvi di piacere piuttosto che rinunciarne. Ma io, in qualunque modo, astenendomi quasi sempre e totalmente da ogni diletto, non ho potuto evitare diverse malattie delle quali alcune mi hanno posto in pericolo della morte, altre di perdere l’uso di qualche membro, o di condurre perpetuamente una vita più misera che la passata; e tutte per più giorni o mesi mi hanno oppresso il corpo e l’animo con mille stenti e mille dolori. Capisci cosa voglio dire, uomo? Se io fossi morta cosa ne sarebbe stato di te? E certo, benché ciascuno di noi sperimenti nel tempo delle infermità, mali per lui nuovi e infelicità maggiore che egli non suole (come se la vita umana non fosse bastevolmente misera per l’ordinario); tu non mi hai dato tregua, nulla che potesse compensare il mio dolore, alcun momento di sanità sovrabbondante e inusitata, qualche diletto straordinario per qualità e per grandezza. Anzi, hai operato affinché la mia malattia progredisse, il cancro invadesse la Terra, contaminasse tutta la mia opera.”

“Ora dal sole e dall’aria sarete ingiuriati di continuo: da questa con l’umidità, con la rigidezza, e con altre disposizioni; da quello col calore, e con la stessa luce: tanto che non potrete mai, senza qualche maggiore o minore incomodità o danno, starvene esposti all’una o all’altro di loro.

Infine, io non ricordo aver passato un giorno solo della vita senza qualche pena; laddove io non posso contare quelli che ho consumati senza pure un’ombra di godimento: comprendo che anche a me è destinato e necessario il patire, quanto il non godere; tanto impossibile il viver quieto in qual si sia modo, quanto il vivere inquieto senza miseria: e mi risolvo a conchiudere che tu sei nemico scoperto della Natura, e degli altri animali, e di tutte le opere mie; ora ci insidi ora ci minacci ora ci assalti ora ci pungi ora ci percuoti ora ci laceri, e sempre o ci offendi o ci perseguiti; e che, per costume e per principio, sei carnefice della tua propria famiglia, dei tuoi figliuoli e, per dir così, del tuo sangue e delle tue viscere. Per tanto rimango priva di ogni speranza: avendo compreso che gli uomini finiscono per perseguitare chiunque li fugge o si occulta con volontà vera di fuggirli o di occultarsi.

E già vedo il tempo amaro e lugubre della vecchiaia; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da me per legge a tutti i generi dei viventi. E tu non ti preoccupi più di questo? La tua vecchiaia sarà il futuro dei tuoi nipoti. Non ti preoccupi per loro? Non ti ricordi che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, e tutto il rimanente allo scadere e agli incomodi che ne seguono?”

“Come osi? Immaginavi tu forse che il mondo fosse stato fatto per causa tua? Tu non sei più artefice del nostro destino. Quando io ti offendo in qualunque modo e con qualsiasi mezzo, io me ne frego, non me ne curo, se non rarissime volte: come, ordinariamente, se io ti diletto o ti benefico, non lo so; e non ho fatto, come credevi tu, quelle tali azioni, per dilettarti o giovarti. E finalmente, se anche avvenisse con le mie azioni di estinguere tutta la mia specie (il futuro dei miei nipoti), io non me ne avvedrei.”

“Poniamo il caso che un qualsiasi uomo m’invitasse spontaneamente a una sua villa e io per compiacerlo vi andassi. Quivi mi fosse dato per dimorare una cella tutta lacera e rovinosa, umida, fetida, aperta al vento e alla pioggia, dove io fossi in continuo pericolo di essere oppressa. Egli, non che si prendesse cura d’intrattenermi in alcun passatempo o di darmi alcuna comodità, ma anzi non si curasse proprio che io esistessi; e oltre di ciò mi lasciasse villaneggiare, schernire, minacciare e battere da’ suoi figliuoli e dall’altra famiglia. Lamentandomi di questi trattamenti, mi rispondesse: forse che ho fatto io questa villa per te? O mantengo io questi miei figliuoli, e questa mia gente, per tuo servigio? Tu che cosa hai fatto per me? Che cosa mi hai dato, in fondo? La vita? La morte? Ho altro da pensare che dei tuoi sollazzi e di farti le buone spese; a questo replicherei: vedi, amico, che siccome tu non hai fatto questa villa per uso mio, così fu in tua facoltà di non invitarmici. Ma poiché spontaneamente hai voluto che io ci dimori, non sarebbe il caso di fare in modo, che io, quanto è in tuo potere, ci viva per lo meno senza travaglio e senza pericolo? Tu pensi di potermi relegare nella miseria, di potermi costringere in una cella, di poter così operare senza impedimenti. Come ti sbagli, piccolo uomo. Se tu non hai cura di me, se mi inviti e poi mi dimentichi, preso dall’ebbrezza della tua opera, poi non venirti a lamentare quando non sarò più
in grado di controllare le mie reazioni. Così dico ora. So bene di non aver fatto il mondo in servigio degli uomini. Piuttosto tu potresti credere ancora che l’avessi fatto e ordinato espressamente per tormentarli. Ma non era certamente questa la mia intenzione. Non avevo intenzioni quando ho fatto il mondo. T’ho io forse pregato di importi in questo universo? O violentemente, e contro tua voglia? Ma se di tua volontà, a mia insaputa, e in maniera che io non potevo sconsentirlo né
ripugnarlo, tu stesso, colle tue mani, ti ci sei collocato e hai deciso di prendere in mano tutto il Creato; non è dunque ufficio tuo, tenermi lieta e contenta in questo tuo regno, o almeno vietare che io non vi sia tribolata e straziata, e che l’abitarvi non mi nuoccia? E questo che dico di me, lo dico soprattutto per te, lo dico in favore degli altri animali e di ogni creatura. Perché la mia divina indifferenza, è in realtà regolata da un fattore molto importante (che di fatto è il mio unico insegnamento), che, se rispettato, permetterebbe ad ogni essere vivente, pur tra sofferenze e dolori, ma nella possibilità di abitare la felicità, di vivere in armonia con me.
“Tu forse hai dimenticato che la vita di quest’universo è un perpetuo circuito di produzione e distruzione, e questo legame è indissolubile perché è alla base della conservazione del mondo. Codesto medesimo concetto odo ragionare a tutti i filosofi. Ma poiché quel che è distrutto, patisce; e quel che distrugge, non gode,  e a poco andare è distrutto medesimamente; dimmi quello che nessun filosofo mi sa dire: a chi piace o a chi giova codesta vita infelicissima dell’universo, conservata con danno e con morte di tutte le cose che lo compongono? Per questo motivo io esigo il rispetto e aspiro all’assoluto.

Io questo nodo voglio sciogliere, io sotto i piedi voglio tenere la Natura e scegliere cosa distruggere e cosa creare, cosa deve durare e quale risorsa sperperare. Io sono l’unico essere vivente ad avere coscienza della morte, e questa voglio superare. Parli di un fattore che se rispettato ci permetterebbe di vivere in armonia con il Creato. Questo fattore non esiste. Le tue sono chiacchiere vane. Tu nulla ci insegni alla fine!” disse l’islandese.

“Io vi insegno l’equilibrio.” rispose la Natura.

Fu allora che arrivarono due leoni (quasi estinti anche loro) così rifiniti e maceri dall’inedia, che trovarono solo la forza di mangiarsi quell’Islandese; e presone un poco di ristoro, si tennero in vita per quel giorno. Ma vi sono alcuni che negano questo caso, e narrano che un fierissimo vento, levatosi mentre che l’Islandese parlava, lo stese a terra, e sopra gli edificò un superbissimo mausoleo di sabbia: sotto il quale colui diseccato perfettamente, e divenuto una bella mummia, fu poi ritrovato da certi viaggiatori, e collocato nel museo di non so quale città d’Europa.

Biografia

Daniele Zepparelli. Nato il 2 giugno 1978 a Marsciano (PG). Laureato in Lingue e Letterature Straniere e in Scienze della Formazione Primaria. Maestro di scuola primaria. Socio fondatore di Techne, azienda che si occupa di energie rinnovabili. Ideatore e organizzatore dell’Umbria Green Festival, evento che si svolge ogni anno tra Terni e Narni. Pubblicazioni: Il triste valzer di Mefistofele. Saggio. Secondo al concorso letterario nazionale Premio Città di Castello.

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