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La ruga di Caino: l’umana violenza tra natura e cultura

Gli leggo le notizie del giornale:
i casi della guerra non mai sazia
e l’orrore dei popoli che strazia
la gran necessità di farsi male…

(Guido Gozzano, L’analfabeta)

 

In un memorabile passo di Via col vento il raffinato Ashley Wilkies spiega a Rossella O’Hara che non è coraggio quello dimostrato dai soldati: “La battaglia è come lo champagne: dà alla testa tanto ai codardi quanto agli eroi. Qualunque imbecille può diventare temerario sul campo quando l’alternativa è essere coraggiosi o farsi ammazzare”. D’altronde guerra, definita “di natura” da un esperto come Napoleone e “sola igiene del mondo” da Marinetti, significa etimologicamente mischia, dal verbo germanico che indica avvilupparsi. Un lavoro sporco che si fa perché piace e talora si ama, anzi si “sposa”, con la benedizione di Dio o degli dei, sacralizzando e giustificando così vittorie, sconfitte e stragi. Perché, se il potere della donna è mettere al mondo, quello dell’uomo si manifesta col Genio Civile e Militare, il contraltare della dea-madre è sempre il dio-guerriero.

Benché sia il telencefalo il motore evolutivo della specie, si dà per scontato che un maschio debba fare i fatti e venire alle mani, se necessario, impegnarsi nella lotta fisica e stare in prima linea, giocando con le pistole fin da piccolo. In effetti il fascino magnetico delle dittature si è basato in buona parte sul richiamo ad agire e reagire, facendo del verbo il servitore dell’azione, al prezzo del sacrificio della sublimazione e del civismo. Non per nulla Virginia Woolf, destabilizzata dall’approssimarsi del secondo conflitto mondiale, cercava di prendere le distanze dal substrato animale. La natura, dice in un racconto, incita a fare qualcosa per porre fine a ogni idea che minacci di eccitare o ferire: “Da qui, suppongo, proviene il nostro leggero disprezzo per gli uomini d’azione, uomini che, secondo noi, non pensano” (Il segno sul muro). Eppure, gli stessi letterati sono stati ambivalenti al riguardo.
Icona romantica di svariate cause di liberazione, George Byron, che si giudicava troppo infingardo per spararsi, invocava pochi “cittadini encomiabili ed attivi”, facendo i nomi di Cervantes, Tasso, Dante, Ariosto, Kleist, Eschilo, Sofocle. Annotava in proposito: “Ritengo la preferenza accordata a chi scrive su chi agisce, il gran chiasso che si fa attorno allo scribacchiare e agli scribi, un segno di effeminatezza, di degenerazione e di debolezza” (Diario londinese, 1813). Persino Leopardi considerava davvero valoroso colui che è capace di eroismo fattivo e non solo ideale, mirando ai critici che godono di stroncare, fare a pezzi e spezzar le ossa degli autori dalle colonne di un giornale. Nel medesimo periodo Lermontov paragonava il poeta a un attore tragico imbellettato “che meni la sua spada di cartone”, desiderando di gettare in viso alla società mondana “il ferreo verso / pervaso di amarezza e di furore!” (Non credere a te stesso). Arbenin, protagonista del suo dramma Un ballo in maschera, deciso a uccidere colui che erroneamente crede amante della moglie, non riesce a farlo avendone l’occasione, arrossisce per la vergogna di esser prono al tempo che ha bandito il farsi giustizia: “Tra gente civile sono nato; la lingua / e l’oro – eccoli il nostro pugnale, ecco il veleno!”. Il passionario Giosuè Carducci lamentava di esser ridotto a sudar dietro al verso, “guasti i muscoli e il cuor da la rea mente”, mentre sarebbe stato meglio dover la gloria a “le forti prove e le sudate cacce” (Idillio maremmano). Le “risse” nel petto non bastavano a scongiurare in lui un vissuto di passività e il senso de “l’inutil vita” (Pianto antico).

L’uomo di intelletto, in verità, soffre di un altro genere di pavidità, quella di non saper far fronte alla cruda e meschina ferinità umana, preferendo il regno immaginario dell’arte e della cultura. Se ogni tanto qualche vate è stato reso cavaliere, per meriti sul campo letterario e il vanto dato alla Nazione, come Walter Scott nominato Sir dalla corona britannica, rari sono stati nella storia gli uomini al contempo d’armi e di lettere (Thomas Edward Lawrence, per tutti d’Arabia, e il nostro Gabriele D’Annunzio), se mai più d’avventura (Joseph Conrad). Di solito i due tipi son nettamente distinti, chi si batte con le braccia e chi con le idee, chi lavora di “muscoli e tendini” e che di “nervi e cervello” secondo Jack London (Il popolo dell’abisso).
Il pacifista Hermann Hesse, accusato di essere un senza patria imboscato in Svizzera, in un pamphlet pubblicato anonimo nel 1919 si ispira a Nietzsche quale “ultimo, solitario rappresentante di uno spirito, di un coraggio, di una virilità tedeschi che ora sembrano estinti”. Pure Lorca nel Lamento per Ignacio Sanchez Mejias, scritto per l’amico torero deceduto a causa di una ferita tra l’inguine e la coscia alle cinque della sera dell’11 agosto 1934, esprime sgomento e ammirazione per chi ha saputo guardare in faccia la morte, infliggerle colpi e fare del confronto col Nulla una danza. Hemingway, figlio di un medico (suicidatosi nel 1928), dal padre avvicinato alle sue due passioni più durature (caccia e pesca), sodale di toreri e pugili, modello di mascolinità per generazioni, di fatto svolgeva la professione di “corrispondente di guerra” ed era ossessionato dal mito dell’ardimento fisico, in particolare nella corrida. Il che aiuta a capire il suo precoce invecchiamento, tra gin, depressione e infine suicidio pochi giorni prima del sessantatreesimo compleanno. E come non citare il famoso discorso tenuto da Soltgenitsijn negli USA nel 1978? Si intitolava Il declino del coraggio e biasimava la decadenza della virilità in Occidente.

In qualunque epoca la prova del nove dell’uomo consiste nel rischiare la vita e toglierla, in alternativa farne grazia, acquisendo diritto a dominare e ricevere onori/compensi. A tutte le latitudini la selezione delle nuove leve giovanili mirava a far emergere i più combattivi “deprimendo”, cioè ponendo in basso nella scala, gli inetti (abietti). Perché intervenire a parole è alla portata di tutti o quasi, e la politica ha fornito per generazioni occasioni di duelli seduti comodamente in “parlamento”, campagne elettorali infuocate tra opposti schieramenti, di cui permane traccia sul piano spettacolare tutt’oggi. In Inghilterra gli scranni parlamentari sono ancora collocati alla distanza del fil di spada, giusto per ribadire le basi del confronto.
Pusillanime e infingardo (privo di forza d’animo) sono vocaboli usati solo in relazione ai maschi, di cui una larga fascia intermedia non è né coraggiosa né energica. In Umiliati e offesi di Dostoevskij l’alcolizzato Masloboev, che si accusa di vigliaccheria, afferma: “D’altronde, secondo me non c’è uomo che non sia un vigliacco”. E ne L’idiota si suggerisce con sottigliezza: “Vigliacco è chi ha paura e scappa, ma chi ha paura e non scappa non è ancora un vigliacco”. È per reagire a tale sospetto che si può inseguire ciò che simboleggia i più grandi timori e terrori (Moby Dick di Melville), per terra, per mare, nei cieli, negli inferi. Sulla scia si colloca anche l’attività sportiva, che è alla lettera “portarsi per divertimento da un luogo all’altro”, perché gli esercizi fisici sono evoluzioni delle azioni intese nella preistoria a sviluppare abilità utili per la sopravvivenza, quali predazione, fuga, resistenza. Non fa eccezione il cacciare, che in latino vale prendere e catturare. L’arte ne ha dato mirabili rappresentazioni, ad esempio la serie eccezionale di tappeti persiani del Cinquecento alla corte della dinastia sciita Safavide, denominata A caccia in Paradiso, con scene raffinatissime e dettagliate di inseguimenti e uccisioni, eco dei magnifici mosaici pavimentali della Villa Romana del Casale di Piazza Armerina.
Ritrovarsi per le battute di caccia in gruppo serviva a nobili e ricchi per esorcizzare il potenziale omicida della specie, il vitalismo in esubero, la sensualità e la sete di sangue da versare (compreso il proprio), consentendo alla bestia interiore di uscire allo scoperto in determinati ambiti e a certe condizioni. Non a caso si parla(va) di piaceri venatori, ai quali Federico II di Svevia ha dedicato un noto trattato (De arte venandi cum avibus). Istruttivo il caso dei sovrani di casa Savoia, che si son riservati l’esclusiva di sparare agli stambecchi sul Gran Paradiso, supportati da valligiani che radunavano gli animali davanti al capanno di appostamento. Il re, infatti, vorrebbe essere l’unico ad andare a segno e goderne, senza doversi misurare o aver concorrenti (sentirsi l’unico maschio e membro). Era altresì detta cinegetica l’attività professionale con cani addestrati all’uopo, i cui appassionati in fondo preferivano alle signore i fedeli compagni a quattro zampe e gli sparvieri. Tuttora, se può descrivere il suo stato d’animo, il cacciatore parla con trasporto del sentimento per la preda, che comincia dall’uscir di casa all’alba, seguendo le tracce, annusando l’aria e facendo attenzione ai segnali stagionali, sino al sacrificio rituale con incorporazione delle qualità totemiche cibandosi delle carni. Nell’opera di Richard Strauss, su libretto di Hugo von Hofmannsthal, La donna senza ombra (1919) l’imperatore riesce a catturare grazie al falcone prediletto una bianca gazzella priva di ombra, che al momento del colpo fatale si tramuta in fanciulla divenendo poi sua consorte, compagna soltanto di letto, perché di giorno egli è sempre nella foresta. Più che di metamorfosi si può parlare di metafora e analogia, perché l’atteggiamento verso la selvaggina fuggitiva e la femmina con la quale accoppiarsi (che non è la donna-madre generatrice di prole) è il medesimo. Anche il falconiere dell’omonimo quadro di Tranquillo Cremona (1917) amoreggia con una ragazza, mentre sulla spalla sinistra reca l’inseparabile rapace, suo prolungamento, simbolo fallico di istintualità, agilità e libertà da vincoli.
Va ricordato che George Vaillant, nella ricostruzione della storia delle Americhe, sottolinea che alcune tribù indiane di pianura sono passate dall’agricoltura sedentaria al nomadismo inseguendo mandrie di bufali vaganti, per l’attrattiva costituita dal condurre “un’esistenza altamente drammatica, esaltando nella guerra e nella caccia le proprie virtù virili” (La civiltà azteca). Nel Medioevo in Piazza San Marco a Venezia si svolgevano grandi e popolari assalti al cinghiale, all’orso e al toro. Il massimo effetto veniva raggiunto nei secoli andati assistendo allo spettacolo della violenza mediata, cioè offrendo prede a feroci predatori, un godimento psicofisico intenso vedendo da vicino lo scontro spietato e mortale, giustificato in quanto naturale. Colombo, nel soggiorno a Capo Verde, si accalora per “la bellezza” di un combattimento venatorio da lui stesso ordinato, consistente in un’orrenda e macabra lotta tra un maiale e una scimmia mutilata con in corpo una freccia (Lettera rarissima, 7 luglio 1503). Le odierne gare clandestine tra cani non sono meno cruente e primitive. Difatti è il gusto ancestrale della carneficina, venuto meno il motivo della sussistenza, ad aver posto in cattiva luce la cosiddetta caccia “sportiva” nell’Occidente ideologicamente e di facciata buonista. Eppure non cessano i safari a pagamento in Africa, acquistati da milionari con cifre che basterebbero a sfamare intere regioni del continente nero.
Il marchio di Caino è quindi la ruga di malvagità e cattiveria sulla fronte degli uomini, che come tanti Attila passano lasciando un’impronta ematica e spermatica, li si vede avanzare nei secoli trasfigurati in volto dal furore della battaglia, della rapina e dello stupro, lordi di sudore, polvere, fango e sangue, mentre il seme resta in ombra per ovvie ragioni. Nell’ecatombe in fondo si realizza la più completa uguaglianza tra gli esseri viventi. Di converso, se Ghandi può affermare che la non violenza è una legge naturale, è perché si radica nell’evoluzionismo quale contrappeso alla distruzione funzionale alla rigenerazione perpetua (incluso il rimescolamento genetico). E in effetti è facile constatare che i soggetti più aggressivi tengano al giudizio dei gentili e dei miti. L’altra guancia del messaggio evangelico affascina e stordisce appunto per il contrasto con l’esperienza comune, l’inimicizia e l’odio per un nonnulla o un pretesto. A onor del vero già Epitetto prescriveva al filosofo cinico di accettare di venir battuto come un asino e amare coloro che lo percuotono come un padre o un fratello di tutti, per affermare la sua indipendenza dal caso, dalla sorte e dal mondo.
Le filosofie e le confessioni religiose hanno tentato di contenere, convertire e ritualizzare il cannibalismo e la tendenziale nocività della specie più sanguinaria, nella forma più estrema coi mistici del deserto che rifiutavano di uccidere finanche i minuscoli insetti. Nella Gerusalemme liberata, a proposito dei due eremiti che soccorrono il danese vittima dell’agguato ordito da Solimano, Tasso rileva che “difesa miglior d’usbergo e scudo / è la santa innocenza al petto ignudo”. Per fare un esempio orientale, si può citare la figura del re indiano Aśoka (senza dolore) che nel decimo anno del suo regno (268-222 a.C.), in seguito a un miracolo, trapassa da seminatore di devastazioni a munifico creatore di pace e benessere.

La questione della violenza è dunque molto più importante per la civiltà di quella del sesso e di ogni altro comportamento, ieri come oggi, e meriterebbe più approfondimento da parte dei signori uomini. Perché, se dalla collaborazione tra i sessi discende la continuità della specie, è dalle intese e dalle strette di mano dei maschi che dipende l’avvenire della terra; e solo la volontaria immedesimazione può fungere da ponte comunicativo e solidaristico. Il perenne squilibrio della bilancia, purtroppo, è parte integrante del patrimonio antropologico. Buoni sentimenti, retorici ideali, l’invito a far l’amore, i fiori nei cannoni, le mani atteggiate a cuoricino, non alimentano la confusione? Ha senso puntare sulla moda, come proponeva Wilde a fine Ottocento, cioè sulla squalifica estetica (immagine o reputazione) della brutalità al posto del monito morale? Ci salverà la bellezza e quale? Forse gli interessi economici, il terrore per le catastrofi o il panico per la fine del pianeta? Improbabile, poiché non esistono sorti magnifiche e progressive, tutto va e viene, a tornare, anche nell’esistenza di ciascuno, è soprattutto la negatività rimossa. Tra sparare e sperare cambia una sola vocale, ed è il progresso scientifico ad aver reso più micidiali le mani e le menti. Sicché conviene far tesoro del poco bene possibile, vigilando sugli intimi desideri e i fantasmi di morte, non chiedendo che altri se ne facciano carico. Perché chi fa la guerra, assassina, distrugge, lo fa pure per noi e conta sulla nostra complicità. Caino, come ammonisce Borges, non ha ancora finito di uccidere Abele.

Biografia

Psichiatra e sessuologo nell’ATS di Milano, è stato cofondatore e presidente della prima Associazione italiana in tema Aids, collabora con l’Ordine dei Medici di Monza per iniziative di formazione e con riviste di divulgazione letteraria. È autore di saggi di psicologia sociale e critica culturale, tra i quali: Che colpa abbiamo noi (2013), Tracce vive (2016), Viva Dalida (2017), Questo matrimonio non s’ha da fare (2019), Tra di noi l’oceano (2021, premio letterario internazionale Antica Pyrgos). Di recente pubblicazione Di petrolio e poesia. L’eredità di Pier Paolo Pasolini (2022). Un vasto archivio di scritti è consultabile sul sito www.mattiamorretta.it

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