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Paolo Rumiz e la ricerca costante di Europa

“…quando dissero al serbo Gojko Petrovic, un pezzo d’uomo di settant’anni ex partigiano, di calarsi i pantaloni davanti ai mercenari di Arkham vidi dipingersi sul suo volto un’espressione di disarmato stupore. Quel giorno era il 10 Aprile del 1992 […] Le “tigri” avevano stanato i musulmani dalle cantine, persino dalle fogne, dove si erano nascosti in preda al terrore. Gli ultimi cinque li avevano trovati in casa del serbo Petrovic il quale sperava di sottrarli al massacro […] Quando partì la raffica il vecchio si accasciò di traverso sulla stuoia con la scritta “Dobrodošli”, benvenuti. L’espressione di disarmato stupore gli si era già fissata definitivamente sulla bocca e sugli occhi”.

Difficile incasellare parole narranti così. Reportage, inchiesta, giornalismo letterario, narrazione creativa, esplorazione umana, ricerca antropologica o sociologica sul campo: probabilmente sono tutto questo. E anche di più.

Sta di fatto che la loro forza evocativa, emotivamente esperienziale, fa sì che il senso della banalità, dell’assurdità del male, della manipolazione di senso e significato, arrivino dritti all’anima prima che al cervello. E lì rimangono impressi più di ogni altra lezione o narrazione. Paolo Rumiz va comunque oltre l’efficace rappresentazione. Vive, interpreta, legge, elabora, vive di nuovo. In “Maschere per un massacro“ (1996), da cui quelle parole sono tratte, forse più che in altri suoi libri, anche quando trattano dei Balcani come “La linea dei mirtilli” (1993), la teorizzazione della chiave di lettura di processi disumani come la guerra, la pulizia etnica, del male che si insinua nell’interesse di pochi, del bene prevalente nella natura umana ma incapace di prevederlo, prevenirlo, impedirlo, raggiunge un drammatico culmine. Una teorizzazione indissolubilmente saldata a terra, illuminante nel groviglio della realtà.

Merito indubbio della poliedricità del suo percorso di vita e professionale (un tutt’uno in lui), non pienamente espressa dalla definizione ricorrente che lo descrive come giornalista, scrittore, viaggiatore: gli studi a Trieste, la laurea a Cambridge, la lunga formazione come inviato speciale del Piccolo di Trieste e poi l’approdo a La Repubblica, corrispondente dal 1986 nell’area balcanica e danubiana fino a tutti gli anni novanta e poi in Afghanistan, i reportage dai viaggi nel cuore dell’Europa, al confine orientale, in Italia.

Il suo essere triestino non è una mera nota biografica ma un tratto fondamentale della sua peculiarità. Come Rumiz ama ricordare, “uno che nasce a Trieste si abitua fin da bambino a leggere la complessità del luogo e nella sua pluralità culturale”. Per cui ci “si confronta con episodi come la guerra dei Balcani con una intelligenza, intesa come capacità di intendere gli eventi, maggiore di altri”. Nascere, crescere in quella terra di frontiera, misurarsi costantemente con quel confine, abituarsi alla complessità. In un tempo in cui la semplificazione con la sua comodità percorre le nostre menti, percuote sentimenti ed emozioni, riduce le interazioni, una tale abitudine diventa un bene ancora più prezioso.

La sua passione per l’Europa affonda le radici nell’appartenenza a quella città. Trieste era, è una città Europea. Su quella frontiera l’Europa si sente più che altrove come cosa viva. Diventa così inevitabilmente un punto focale della sua ricerca, un tema che pervade i suoi scritti fin dalla prima opera “Danubio. Storie di una nuova Europa” (1990). Nel 2015 la sua “indagine” immersiva nei luoghi della prima guerra mondiale, il filtro dell’Europa lo porta a visitare le trincee italiane e quelle della Galizia, frontiera dell’Impero austroungarico compresa fra le odierne Polonia e Ucraina, cogliendo il filo umano che le unisce. “Nella vicinanza di trincea è nata la voglia di Europa” ammonisce Rumiz. Quella vicinanza “rese unica la tragedia tra gli uomini che stavano di qua e di là, ma condividevano la stessa nostalgia di casa”.

Una dimensione connaturata al giornalista e allo scrittore Rumiz è il viaggio, contrassegnato dal “recuperare lo stare sull’andare”. Si fa strada in quel “prendersi tempo”, dopo aver consegnato al giornale la cronaca da inviato nella zona di crisi, per “sentire” i luoghi dovuti raccontare di fretta. Poi ad ampliare la narrazione arrivano i viaggi commissionati per pubblicarne i reportage o fatti per passione, come quello narrato in apertura del volume “È Oriente” (2003), da Trieste a Vienna in bicicletta con il giovanissimo figlio. Arriva così la teorizzazione della lentezza per avvicinare i luoghi, a dispetto dell’apparenza, come condizione per “annusare” e “ascoltare” ciò che accade per strada. Cruciale la scelta del mezzo: dal treno, alla bici, fino ai piedi. “Nel momento in cui noi percorriamo lentamente uno spazio lo memorizziamo al punto tale che poi a distanza di anni, di decenni, ricordiamo di quella strada ogni metro, ogni svolta, ogni sosta, ogni bicchiere d’acqua bevuto”, rendendolo familiare, quindi vicino.

Il rapporto complesso tra parole e viaggio, tra scrittura e cammino diventa pratica e ambito da sviscerare fino a comprendere che la narrazione non è generata dai chilometri percorsi ma dal ritmo che si dà a ciò che ci circonda: il ritmo del passo, del respiro, con cui si ascolta il battito del cuore, con cui si leggono le parole ad alta voce. E che le parole a loro volta generano il cammino nella misura in cui imprimiamo loro una cadenza, un ritmo appunto, capace di ri-evocare, scuotere emozioni e sentimenti.

Nel viaggio lungo l’Appennino Rumiz coglie un ritmo narrante che – ci rammenta – tanto ha da dire e da insegnare al nostro paese: quello della transumanza. Quel modo di vivere esprime l’essenza di una dorsale che, nonostante l’oblio, rimane l’elemento cardinale del nostro paese rendendolo unico perché, ci ricorda Rumiz, “Non esiste al mondo un’altra penisola così lunga, così stretta con due mari così vicini”. Commentando qualche anno fa quel suo viaggio di settemila chilometri da nord a sud dell’Italia nel 2006, narrato ne “La leggenda dei monti naviganti”, Rumiz lo ha definito “un tentativo inconsapevole, un primo approccio a questa identità plurale, multiforme, labirintica eppure segnata da un’unica grande spina dorsale. È difficile trovare un luogo così denso di storia e riconoscibile come questo […] La sensazione profonda del viaggio appenninico è dunque quella di aver raggiunto l’unicità dell’identità italiana. Questo camminare sul filo di uno spartiacque da cui senza grosse difficoltà si riescono a vedere due mari, in certi casi, andando verso sud anche tre – mi riferisco allo Ionio –, è qualcosa che da nessun’altra parte può essere vissuta. Questa è l’identità peninsulare dell’Italia e un fatto su cui si riflette troppo poco”.

Dieci anni dopo Rumiz è tornato su quelle tracce, con la stessa “Topolino” del ‘53, soffermandosi in particolare nei luoghi appena colpiti dal terremoto di Amatrice e Norcia. Visitando a piedi i Piani di Castelluccio, che non ha esitato a definire il Tibet dell’Europa, nel contemplare le faglie visibili nei gradoni del fianco del Monte Vettore e la vastità silenziosa del Piano, è tornato a cogliere un tratto fondante e simbolico, definendolo un luogo dove coabitano il bello e il terribile, la faglia e il “paradiso”: una sintesi anche morfologica della condizione umana. Abbandonando quelle terre, rimuovendole dall’orizzonte di pensiero e sentimenti – ci dice Rumiz – è un po’ come se perdessimo noi stessi.

Dal cuore dell’Appennino si dipana il “Il filo infinito” (2019), la narrazione di un viaggio che da Norcia, attraverso monasteri benedettini disseminati nel continente, mira alla riscoperta dei valori fondanti dell’Europa.

Nell’opera di quei monaci discepoli di San Benedetto da Norcia, che con la formula semplicissima “ora et labora” nei decenni peggiori che seguirono la caduta dell’Impero romano costruirono “dei formidabili presidi di resistenza alla dissoluzione”, Rumiz scorge l’Europa: “Li ho cercati nelle loro abbazie, dall’Atlantico fino alle sponde del Danubio. Luoghi più forti delle invasioni e delle guerre. […] ci dicono che l’Europa è, prima di tutto, uno spazio millenario di migrazioni. Una terra ‘lavorata’, dove – a differenza dell’Asia o dell’Africa – è quasi impossibile distinguere fra l’opera della natura e quella dell’uomo. Un paradiso che è insensato blindare con reticolati. Da dove se non dall’Appennino, un mondo duro, abituato da millenni a risorgere dopo ogni terremoto, poteva venire questa formidabile spinta alla ricostruzione dell’Europa? Quanto è conscia l’Italia di questa sua centralità se, per la prima volta dopo secoli, lascia in macerie le terre pastorali da dove venne il segno della rinascita di un intero continente? Quanto c’è ancora di autenticamente cristiano in un Occidente travolto dal materialismo? Sapremo risollevarci senza bisogno di altre guerre e catastrofi?».

“Canto per Europa” (2021), ultima fatica scritta con la complice ipnosi della notte, è una creazione letteraria con la quale Rumiz ci conduce ancora alla riscoperta dell’Europa. La narrazione scaturisce dalla trasfigurazione dell’esperienza unica del viaggio realmente compiuto su stimolo di un amico, insegnante di Liceo nel Galles, a bordo di un’imbarcazione centenaria, nel Mediteranneo, ripercorrendo alle radici il mito di Europa.

Intento dell’amico era far capire ai suoi allievi inglesi cosa voleva dire perdere l’Europa. Originato di fronte alla crisi dell’Unione europea, tra la Brexit e il riaffermarsi dei nazionalismo, il viaggio incrocia una giovane donna siriana, profuga di guerra, che chiede di salire a bordo per sfuggire al suo destino di violenza e di morte. Il suo coraggio nell’intraprendere l’andare per mare con degli sconosciuti, in vista del miraggio di vivere nell’occidente che crede privo di barbarie, fa riflettere. Ciò non solo perché la giovane donna si chiama Europa come l’omonima principessa fenicia del mito fondativo, rapita da Giove e portata sulla prima isola ad ovest. L’Europa nel mito e nel “Canto” è figlia dell’Asia. La terra che denomina è limitata ad occidente dall’Atlantico e sconfinata ad Oriente.

Quella donna che intraprende il mare sembra la capostipite dei migranti: e l’Europa – ci ricorda Rumiz – è un popolo di migranti. Senza il Mediterraneo la storia nel mito non si sarebbe compiuta: e l’Europa non esisterebbe. Considerazioni, queste ultime, che sono solo cenni di una narrazione poetica che trascina, immedesima, restituisce senso a quel miraggio che l’Europa continua a rappresentare anche per chi la abita già: una terra di libertà, di convivenza pacifica e di benessere universale, dove la barbarie della guerra e della povertà siano bandite. La parola però a questo punto va lasciata all’endecasillabo di “Canto per Europa”, al ritmo che narra imprimendosi nell’anima e nella mente.

In occasione dell’Umbria Green Festival, il 9 luglio 2022 alle ore 21:15 presso lo splendido scenario del Teatro Romano di Carsulae Paolo Rumiz presenterà in anteprima per l’Umbria “CANTO PER EUROPA, con Paolo Rumiz, Lara Komar, Giorgio Monte, Aleksandar Karlik, Vangelis Merkouris.

Di seguito il link per l’acquisto del biglietto:

https://ticketitalia.ticka.it/dettaglio-spettacolo.php?negozio_spettacolo_id=62

 

Biografia

Rita Zampolini. Classe 1964, è nata e vive attualmente a Foligno. Dopo la Laurea in Economia e Commercio ad indirizzo economico-statistico, ha compiuto una lunga esperienza lavorativa nel mondo della cooperazione sociale, per poi approdare al settore economico-finanziario degli enti locali. Fin dal Liceo si è dedicata all’impegno politico attivo e al volontariato. Dopo un’esperienza da Consigliera Comunale dal 1991 al 1999, è tornata nell’ambito amministrativo come Assessora comunale alle politiche sociali, alla scuola, alla memoria, alle politiche di genere e pari opportunità dal 2004 al 2014. Risale a quegli anni la frequentazione del Corso “Donne, Politica e Istituzioni. Percorsi formativi per la promozione della cultura di genere e delle Pari Opportunità” presso l’Università degli studi di Trieste. Proprio la città giuliana è una sua meta prediletta, luogo e stimolo per coltivare interessi culturali e sociali.

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