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L’edera, il mirto e l’alloro – Le corone sempreverdi e il cuore di corniola di Byron

Nel suo ultimo romanzo (Daniel Deronda, 1876) George Eliot, al secolo Mary Ann Evans, paragona i crucci interiori di un adolescente alla suscettibilità di Byron per il suo piede deforme, il sentimento di uno svantaggio ricevuto in eredità che nessuna calzatura riesce del tutto a camuffare, al contempo un lievito spirituale sempre attivo che può trasformare un animo egocentrico in un ismaelita. Sì, perché il piede equino è la fatale menomazione che ha segnato e sospinto il destino di un essere terrestre e celeste, icona storica e letteraria, uno dei rari casi di intellettuale dedito all’azione non meno che alla meditazione.

George Gordon, nato il 22 gennaio 1788, sesto Barone Byron, era una leggenda vivente già nella sua epoca, grazie al concorso di aspettative e proiezioni di larga parte della classe colta europea, che gli aveva cucito addosso un abito leggiadro rivelatosi un’armatura metallica soffocante. Un personaggio per alcuni tratti modernissimo, antesignano di modelli e mode assai popolari oggi. Energico e muscolare, praticante di numerose discipline sportive (equitazione, nuoto, tiro, boxe), dedicava un’attenzione morbosa alla salute, ricorreva spesso all’uso dei sali, pativa il freddo e anelava al conforto della temperatura: “Non ho ancora trovato un sole caldo come dico io” (Diario londinese, 28 novembre 1813). È lui a fornire le sue proporzioni corporee, registrando che le braccia gli parevano troppo lunghe rispetto all’altezza (cinque piedi e otto pollici e mezzo, cioè 1 metro e 74 cm). Amava circondarsi di animali, dalle scimmie ai corvi, verso i quali manifestava atteggiamenti contraddittori, per esempio si era riproposto di non cacciare più uccelli dopo aver ferito e cercato invano di salvare un aquilotto.

Una sua frase condensa il contrasto tra l’apparenza e il vissuto: “Non mi sento bene, anche se dall’aspetto non si direbbe affatto” (27 febbraio 1814). Più in generale si interrogava di continuo sul motivo dell’umore malinconico (svegliarsi al mattino “giù di corda”, disperato e depresso), attribuendolo in conclusione a una costituzione cui né la temperanza né l’esercizio riuscivano a porre rimedio, se mai solo l’agitazione nervosa associata a “passioni violente” (Diario ravennate, 6 gennaio 1821). Ipocondriaco per sua ammissione, lamentava i tormenti della digestione (“pesantezza, torpore e sogni orribili”), domandandosi tra le altre cose se pure Bonaparte ne soffrisse; sorvegliava i chili di troppo quasi temesse il cedimento delle ossa, annoverava tra i vizi il mangiare e si alimentava per settimane esclusivamente con tè e biscotti. In fondo le ossessioni per il peso e la follia rappresentavano una sintesi efficace dei connotati più rilevanti dei genitori, l’obesità materna e la pazzia paterna.

Per lui “la fase poetica della vita” (Pensieri sparsi, 15 ottobre 1821) era il periodo tra i venti e i trent’anni, nel quale la primavera è autosufficiente: “Oh! Non mi nominare i grandi della storia / Il tempo della gioventù è la nostra gloria, / L’edera e il mirto dei ventidue anni / Valgono tutti gli allori dietro cui ti affanni”. L’autostima aveva cominciato a “invecchiare” col diciassettesimo compleanno sentendo di non essere più un ragazzo. Trentatreenne ricordava che a diciannove doveva darsi da fare in qualsiasi modo, dal bere al gioco d’azzardo, sgolarsi e sbracciarsi, combinarne di cotte e di crude per non sentirsi “una nullità”, e a quell’età non poteva che rattristarsi “per aver combinato così poco” (21 gennaio 1821). Riflettendo sulla poesia di Samuel Johnson, molto nota tra fine Settecento e inizio Ottocento, intitolata The Vanity of Human Wishes (1749), commentava: “L’infinita varietà delle esistenze non conduce che alla morte, e l’infinità dei desideri non conduce che a delusioni. Una malattia estirpata è seguita da una nuova pestilenza; e la scoperta di un nuovo mondo poco ha portato al vecchio, se non la sifilide, prima, e poi la libertà in cambio della schiavitù” (Diario ravennate, 9 gennaio 1821).

Un decennio avanti aveva già annotato: “Sono sopravvissuto a tutte le mie brame e alla maggior parte delle mie vanità” (22 maggio 1811). La scoperta del piacere, dopo la fase dell’entusiasmo, lasciava il posto alla delusione e al disgusto, come se un prezioso legno si consumasse nel rogo dei sensi; sperperando abbondantemente nel sesso e nelle relazioni collezionava morbi venerei e generava una scia maligna di dicerie e scandali. Nondimeno si preoccupava della propria immagine nei salotti londinesi, sui giornali e nelle cronache mondane, teneva all’abbigliamento e ai denti bianchi, si metteva volentieri in posa. Famose le opere d’arte che l’hanno immortalato, dal ritratto di Richard Westall (1813), in cui appare di profilo col mento poggiato sulla mano destra e un ricciolo sulla fronte, a quello postumo (1835) di Thomas Phillips che lo dipinge con baffetti svolazzanti in costume albanese con turbante, passando per il busto (1833) dello scultore danese Bertel Thordvalsen.

Nella sfera amorosa la sua personalità rivela conflittualità e sfaccettature interessanti e istruttive. Riguardo alle donne nei diari parla del fascino delle “creature belle ed evanescenti”, a cominciare dalla cuginetta Margaret Parker di cui si era invaghito dodicenne (deceduta adolescente come da copione), attribuendole una bellezza “trasparente”. La compresenza di cinismo erotico e idealizzazione è una costante del suo atteggiamento, evidente soprattutto nel matrimonio con Anne Isabelle Milbanke, all’inizio incalzata perché accettasse l’unione e sposata in forma privatissima nel salotto dei suoceri grazie a una speciale dispensa religiosa. Il viaggio di nozze e il ménage coniugale si erano poi rivelati disastrosi, nel giro di dodici mesi era tutto finito con la nascita di una bimba, con tanto di perizia psichiatrica fraudolenta organizzata da lei per ottenere la separazione, nonché penose sequele giudiziarie. Conosciuta a venticinque anni, “Annabella”, di quattro anni più giovane, nobile ereditiera e figlia unica, aveva colpito la sua fantasia in quanto “non comune e molto poco viziata”, poetessa e matematica (“la principessa dei parallelogrammi”), eppure “dolcissima, gentile e generosa, quasi priva di presunzione”. Tra di loro si era sviluppata un’amicizia “senza un briciolo d’amore da parte di nessuno dei due e frutto di circostanze che di norma portano alla freddezza da un lato e all’antipatia dall’altro” (Diario londinese, 30 novembre 1813). Del resto il principio dell’odio “per il suo piacere / crea le cose che può annientare” (Prometeo, 1816).

Pur dimostrando sovente di comprendere con acume la condizione svantaggiata e frustrante dell’altro sesso, Byron ricama sull’inganno muliebre ne Le donne mentono dicendo il vero (1812-13), sulla falsariga del motivo biblico dell’incostanza diabolica della femmina. Talora è sferzante, per esempio quando afferma di aver immediatamente dedotto da una frase di un amico pugile sulla fedeltà della partner che non fosse la legittima consorte: “Certi panegirici non si addicono al matrimonio; perché, nel caso sia fedele, un uomo non riterrà necessario sbandierarlo; in caso contrario, meno ne parla meglio è” (Diario londinese, 24 novembre 1813). Prova persino gusto a vedere nella luce peggiore le dame, che in una serata qualsiasi al Covent Garden gli paiono tutte “cortigiane palesi e sottintese” e “le intriganti” in maggior numero rispetto alle “mercenarie regolari” (18 dicembre 1813). Un mese prima aveva scritto: “Ho visto più mondo in Europa e in Asia di quanto abbia saputo utilizzare. Che cosa ho visto? Lo stesso uomo dappertutto, già, e la stessa donna” (14 novembre 1813). E aggiungeva che, potendo scegliere, avrebbe preferito il musulmano che non fa domande e “una femmina della stessa razza, che ti risparmia la fatica di farne”. Tuttavia nel Manfred (1817), sotto la maschera del protagonista dedito a inquietanti traffici con l’occulto, confessa la propria colpevolezza e anormalità, evocando una onirica sorella, sorta di doppio speculare, annientata con l’ambivalenza sentimentale e non con le mani (in controluce il rapporto con la sorellastra Augusta Leigh).

Quanto ai maschi Byron manifesta un’intensa affettività che a tratti giunge a un completo abbandono. Di stanza a Ravenna alle soglie del trentatreesimo compleanno ricorda i giorni felici in cui viveva a Cambridge nel 1807 con Edward Noel Long, buono e affidabile, allegro ma con una nota di malinconia, deceduto in seguito a un incidente navale. Con dolore rammenta che erano rivali nel nuoto, condividevano la passione delle cavalcate, le letture e la giovialità: “L’amicizia con lui e una passione amorosa violenta, benché pura, sono stati l’idillio del periodo più romantico della mia vita” (Diario ravennate, 12 gennaio 1821). È per l’alleanza con un altro amico che George si getta anima e corpo nei moti politici degli anni Venti: seguendo Pietro Gamba, fratello dell’amante ventenne Teresa (sposata con l’anziano conte Guiccioli), si unisce ai carbonari a Ravenna; e con l’avventuriero Edward John Trelawny (detto “corsaro”) parte per la Grecia per appoggiare la causa dell’indipendenza.

Va notato che Byron mostra di distinguere con chiarezza il contenuto dei legami maschili più importanti in verde età. Ne Il pellegrinaggio del giovane Aroldo (1811) difatti evoca l’oggetto della prima infatuazione, John Edleston, della cui prematura scomparsa ha saputo solo al rientro in patria: “Oh sempre affettuoso, amabile e amato!”. E lamenta che la morte gli ha preso tutto ciò che poteva: la madre (deceduta nell’agosto del medesimo anno), un compagno di Università e “colui che era più che amico” (Canto II). Il poeta in precedenza era stato informato da conoscenti dell’arresto di Edleston con l’accusa di atti osceni. A riprova del profondo significato, partendo dall’Inghilterra aveva messo nel bagaglio una ciocca dei suoi capelli e affidato in custodia a Elizabeth Pigot la corniola (una pietra dura di colore tra il rosso e il giallo) regalatagli dal ragazzo, e al ritorno ne aveva chiesto la restituzione alla madre della donna. Alla Pigot confidava il 5 luglio 1807: “Durante la mia permanenza a Cambridge c’incontrammo ogni giorno d’estate e d’inverno, senza passare un momento di noia e ci separammo ogni volta con riluttanza crescente. Egli è l’unico essere ch’io stimo, sebbene mi piacciano in molti”.

Edleston rimane incastonato al pari di una gemma nella sua memoria e ricorre nelle opere quale emblema dell’innamoramento puro, veritiero e credibile, un fuoco spirituale spontaneo nei confronti di una persona insostituibile che subisce il medesimo smarrimento. Si erano conosciuti a Cambridge nel 1805, quando Byron aveva diciassette anni e Edleston, canterino nel coro del Trinity College, quindici. Il giovinetto, di umili origini, aveva regalato all’aristocratico amico, che lo aiutava economicamente, la pietra a forma di cuore di poco valore commerciale; proprio per questo George l’aveva considerato segno di sincerità. Offrendo il dono John era scoppiato a piangere e il poeta aveva pianto a sua volta, commosso dalla trasparenza del sentimento e dal fatto di venir corrisposto.

Tornato dal viaggio a Costantinopoli Byron gli dedica alcune liriche sotto mentite spoglie, scegliendo di chiamarlo Thyrza, un nome femminile mutuato da un’opera di Gessner (La morte di Abele), ma che rimanda al thyrsus la verga attorcigliata di edera e tralci di vite, attributo di Bacco e delle Menadi:

 

Nostro lo sguardo agli altri invisibile,

il sorriso agli estranei incomprensibile,

il pensiero sussurrato dei cuori solidali,

la sconvolgente pressione della mano;

il bacio tanto incolpevole e raffinato

che Amore eluse i più caldi desideri.

(Thyrza, 1811-1812)

 

Non precisando il sesso del destinatario può esprimere la disperazione dell’animo e la tenerezza dei ricordi, senza incorrere nel ridicolo in un’epoca che non gradiva le manifestazioni dell’omofilia ritenute poco intonate alla dignità maschile. Un perduto affetto segreto serve perciò a evocare la dimensione ultraterrena, a maggior ragione per chi come lui si era per troppo tempo “laureato in stravizi”. Anche nel citato Il pellegrinaggio del giovane Aroldo il grido è accorato: “Te ne sei andato, amato mio meraviglioso! Che per me facesti ciò che nessuno fece” (Canto II, 95). La peggiore sventura infatti, che incide più a fondo la ruga sulla fronte, è la cancellazione di chi ci è caro dalle pagine dell’esistenza, ritrovarsi affettivamente desolati sulla terra affollata.

Lo stato d’animo luttuoso canta soprattutto nella poesia Su un cuore di corniola che fu spezzato:

 

Sfortunato cuore! E così accade

che tu debba esser in due spezzato!

Anni di riguardo per il tuo donatore

e per te invano son stati consumati?

 

Eppure preziose appaion le parti infrante,

e ogni frammento più caro è diventato,

poiché chi ti porta in te vede

più consono emblema del proprio cuore.

(On a Cornelian Hearth which Was Broken, 1812)

 

Nel 1821 ancora lo ricordava chiamandolo pure love and passion (Diario di Ravenna, 12 gennaio). Durante l’ultima impresa in Grecia il fantasma amoroso giovanile riemerge nella nuova infatuazione omosessuale per un attendente sedicenne, Lukas Chalandriteanos, che non gli corrisponde, anzi si mostra indifferente alle cortesie e ai favori accordati. Nei versi composti per il trentaseiesimo compleanno (22 gennaio 1824) Byron proclama la conclusione definitiva della stagione solare, i giorni sono foglie ingiallite, ai frutti e ai fiori sentimentali subentrano il verme della putrefazione e il dolore in solitudine. Lo spirito però può destarsi ancora sul suolo calpestato dagli antichi eroi, il cui corpo inerme veniva portato sugli scudi con cui avevano combattuto.

Imperando il senso di una fine imminente e oramai necessaria, la morte epica rispecchia l’amore ideale, quasi una ricomposizione platonica delle due metà del cuore di corniola. Dopo giorni di delirio febbrile, in cui il poeta alterna frasi in inglese e in italiano, cala il sipario alle sei di sera del 19 aprile 1824, Lunedì dell’Angelo, mentre fuori un tremendo uragano dà l’addio al leggendario letterato comandante, sbarcato in gennaio a Missolungi con una sgargiante uniforme rossa.

 

Quanto a me, la mia sorte è quella che volli; essere

da vivo o da morto colui che è libero senza paura.

(L’isola, 1823)

Biografia

Psichiatra e sessuologo nell’ATS di Milano, è stato cofondatore e presidente della prima Associazione italiana in tema Aids, collabora con l’Ordine dei Medici di Monza per iniziative di formazione e con riviste di divulgazione letteraria. È autore di saggi di psicologia sociale e critica culturale, tra i quali: Che colpa abbiamo noi (2013), Tracce vive (2016), Viva Dalida (2017), Questo matrimonio non s’ha da fare (2019), Tra di noi l’oceano (2021, premio letterario internazionale Antica Pyrgos). Di recente pubblicazione Di petrolio e poesia. L’eredità di Pier Paolo Pasolini (2022). Un vasto archivio di scritti è consultabile sul sito www.mattiamorretta.it

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