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Fridays for Future, 15.03.19, Bonn Photo by Mika Baumeister on Unsplash

La rivoluzione verde e la lotta al cambiamento climatico: solo attivismo?

La spinta all’azione che anima i Fridays for Future ha una lunga storia. Le mobilitazioni per la salvaguardia del Pianeta e la tutela delle sue risorse sono un fenomeno ben noto globalmente alle società moderne, basti pensare al movimento Chipko contro la deforestazione nelle colline dell’Himalaya, alle proteste russe contro le discariche e impianti di incenerimento o alle istanze delle comunità indigene per la difesa dell’ecosistema danneggiato dalla costruzione di mega-progetti delle multinazionali.

Che cos’è l’attivismo di cui stiamo parlando? Sarà sufficiente a perorare la causa dell’attuale rivoluzione verde? L’attivismo in sé implica l’azione non violenta e l’impegno in prima persona o in gruppo al raggiungimento di uno scopo attraverso una serie di comportamenti che contestano il perpetrare di ingiustizie, sperequazione e le diseguaglianze. Nel tempo, esso ha rappresentato una nuova frontiera dei movimenti per l’ambiente, animato dagli ideali di coloro che considerano il rinnovamento delle politiche ecologiche come un’esigenza primaria e la principale prospettiva delle future economie.

Un bisogno di mobilitazione che non può essere semplicemente liquidato come la protesta non violenta di ben individuabili esponenti; piuttosto esso è un rivolgersi alla collettività e ai decisori politici con lo scopo di smuovere e risvegliare le coscienze.

Tale appassionato impulso connota sia i movimenti giovanili, di cui Greta Thunberg è oggi paladina, sia le meno famose, ma altrettanto significative, battaglie degli attivisti nei Paesi in via di sviluppo. Per la verità, mentre le iniziative della “Generazione Greta” nei Paesi industrializzati diventano popolarissime e di grande interesse mediatico, quelle che sono portavoce di una critica di sistema politico-economico sono soffocate al loro primo grido di protesta. Ed infatti, nei casi in cui la protezione di Madre Terra si associa alla tutela dell’identità della comunità locale o del popolo indigeno, si assiste spesso a minaccia, attacchi alla vita e violenza nei confronti dei difensori dell’ambiente. Sebbene, da questo ultimo rilievo, sembrerebbe stridente considerare tali fenomeni e la loro differente risonanza entro la medesima categoria di attivismo, da un punto di vista concettuale sono entrambi la più aggiornata versione delle mobilitazioni ambientali degli anni Settanta.

Figlio della cultura ecologista e nutrito dalla spinta propulsiva delle sue associazioni e rappresentanze, l’attivismo ambientale ha nel tempo temperato i connotati politici e allentato la morsa sul consenso elettorale per privilegiare le azioni di pressione sulle istituzioni politiche attraverso il coinvolgimento di ampie fette di popolazione.

Le problematiche al centro delle rivendicazioni degli attivisti sono state nel tempo molteplici, spaziando dall’ingiustizia ambientale (innescata dalle critiche ai modelli di sviluppo demografico) alle tematiche inerenti lo sviluppo sostenibile, fino a giungere alla più recente denuncia dell’esaurimento delle risorse del Pianeta.

Tuttavia, tra tutti i temi della rivoluzione green, è la lotta al cambiamento climatico la vera e propria fucina dell’attivismo odierno: il climate change funge da catalizzatore delle principali richieste di intervento da sottoporre all’attenzione dei legislatori ed esponenti politici per stimolare quel rinnovamento che nell’imminente presente (e prossimo futuro) impareremo a chiamare transizione.

Ciò posto, occorre, tuttavia, domandarsi se l’attivismo per il clima sia da solo in grado di smuovere gli animi e quali siano le prospettive di un tale fervore che agisce per la causa ambientale. In effetti, l’attivismo, come ogni fenomeno umano, per essere realisticamente apprezzato dalla collettività deve essere accettabile e avere un effetto utile. Detto altrimenti, queste “grida” di intervento pubblico sono davvero d’aiuto alle politiche di contrasto al cambiamento climatico riconducibile direttamente o indirettamente alle attività umane?

Il tentativo di rispondere a questa domanda non può prescindere dalla valutazione degli esiti delle precedenti esperienze di attivismo ambientale, evidenziando cioè le conquiste e i meriti di chi ha denunciato e si è battuto per vivere in un ambiente non inquinato e per proporre strategie di crescita socio-ambientale sostenibili.

La realtà storica ci ha insegnato come le mobilitazioni ambientali abbiano creato una frattura nell’establishment delle politiche e modelli di sviluppo economico dando vita a un processo di massa che si è ripensato e, soprattutto, ha saputo mettere in dubbio i presupposti più profondi della società. L’attivismo attento alla dimensione umana ha permesso di rimodulare la concezione di uno spazio vitale nel rispetto delle risorse limitate del Pianeta e si è battuto affinché esso fosse salubre per la salvaguardia della salute dell’uomo. Inoltre, quelle proteste per l’ambiente sono nate da una esigenza: la necessità di rendere evidente la disomogeneità del tessuto sociale e industriale che, in taluni contesti soprattutto urbani, è stata causa di ingiustizia ambientale, fonte di diseguaglianze e di sacche di vulnerabilità. Da ultimo, occorre rilevare come da quei moti di tutela per l’ambiente siano emersi studi in grado di dimostrare e allertare circa il peggioramento delle condizioni ecologiche di habitat naturali infestati dall’uso di pesticidi ed agenti chimici così da intervenire in senso preventivo e precauzionale.

Queste minime considerazioni dovrebbero stimolare una riflessione circa la portata dell’attuale attivismo climatico, ricercare la sua base razionale e individuare la concretezza dei suoi risultati.

Perché in effetti, il fatto che la questione climatica sia diventata oggetto preferenziale delle prime pagine dei giornali e protagonista della comunicazione 2.0 non è una assoluta novità e non è, o non dovrebbe essere, per ciò solo considerata la vittoria della rivoluzione verde. Aprire gli occhi della gran parte dell’opinione pubblica, raccontando apertamente la litania degli effetti avversi del cambiamento climatico, rappresenta sicuramente un fenomeno sociale che rende evidente il processo di degrado ambientale in atto ma non sembra, a parere di chi scrive, un obiettivo di lungo termine.

Guardando retrospettivamente alle conquiste dei movimenti ambientalisti, chi scrive è dell’opinione che l’attivismo nel 2021 abbia bisogno di un ulteriore “cambio di pelle” per affrontare le prossime sfide ambientali e necessiti di una “nuova anima” per essere effettivamente al servizio di noi tutti.

Uno sciopero generalizzato, pur creando una importante risonanza nel mettere in discussione un sistema di sviluppo insostenibile, può non innescare conseguentemente un costruttivo momento di dialogo: non stimolando un dibattito pubblico e non approfondendo il substrato valoriale in termini di diritti, esso sembra destinato ad essere etichettato come “uno scendere in piazza” non del tutto efficace alla causa di cui si fa portavoce.

Le proteste del venerdì della nuova generazione green rinfacciano l’inerzia dei governi di fronte al cambiamento climatico in atto e si tratta, a ben vedere, di denunce certamente meritevoli di essere ascoltate. In un contesto di immobilismo ideologico esse sono sintomo di risveglio, ma possono essere realisticamente considerate soltanto come un primo passo verso l’azione vera e propria.

Forse per comprendere la portata intergenerazionale delle nostre attività sul clima abbiamo bisogno di una critica radicale e di una preoccupazione etica del rapporto Uomo-natura che ci inducano a tracciare una nuova “linea di fronte” per proteggere l’ambiente e promuovere modelli di sviluppo economico alternativi.

Pur con tutte le differenze dei diversi contesti sociali, il Nord del Mondo può essere ispirato dall’attivismo dei popoli indigeni e dei difensori ambientali che rende molto ben evidente come la difesa degli ecosistemi e delle risorse naturali sia in primo luogo lotta della collettività per la protezione e salvaguardia dei diritti umani, non trattandosi di pura resistenza anti-sistema per la sussistenza, ma appello all’umanità per la preservazione di culture e identità. Nei Paesi industrializzati manca un’effettiva coscienza che vada oltre l’aspetto simbolico del rapporto con la Natura.

E allora, a fronte di una carente determinazione della volontà politica o di un suo impegno di pura facciata alla lotta ambientale e climatica, l’attivismo potrebbe avere il ruolo di effettivo sostenitore dell’ambiente promuovendo un approccio locale, una riorganizzazione politico- territoriale multilivello e muoversi concretamente per la denuncia di quelle condotte anti-ambientali in danno di soggetti vulnerabili.

In conclusione, l’attivismo green, evitando il riduzionismo a facili proclami, e nel perseguire la causa climatica e per l’ambiente, dovrebbe realisticamente affrontare i difetti di una eco-politica sterile e avanzare proposte effettive e tangibili come, ad esempio, stimolare rappresentanze sociali dal basso, legittimare il coinvolgimento locale, educare ed informare i giovani alla quotidianità delle questioni ambientali.

Piuttosto che l’effetto “disco rotto” delle denunce, la collettività, e in ultima istanza ciascuno di noi, ha bisogno di comprendere le problematiche del Pianeta e le prospettive climatiche, ma ciò può realizzarsi soltanto attraverso un’opera di concreta sensibilizzazione, veicolata dal linguaggio della consapevolezza dei diritti e della responsabilità.

Biografia

Sabrina Brizioli è dottore di ricerca in Scienze Giuridiche con Lode – settore scientifico disciplinare Diritto Internazionale, titolo conseguito presso l’Università degli Studi di Perugia, Dipartimento di Giurisprudenza ove attualmente svolge attività di ricerca. Il suo studio dottorale ha riguardato specificatamente il diritto internazionale ambientale e in particolare la tematica del risorse genetiche.
E’ diplomata nelle Professioni Legali presso la Scuola di Specializzazione L. Migliorini presso l’Università degli Studi di Perugia e abilitata all’esercizio della professione forense.
Dopo aver conseguito la Laurea Magistrale in Giurisprudenza, discutendo una tesi in procedura penale, ha svolto il tirocinio presso la Corte d’Appello di Perugia ed è stata assegnata, senza soluzione di continuità, alle sezioni Civile e Penale. Ha partecipato a molti convegni in Italia e all’estero inerenti le attività di ricerca e a partire dal 2019 è membro del comitato per l’Europa della rivista Diritto e Processo (Derecho Y Proceso-Rights & Remedies) nell’ambito della quale coordina la sezione riservata al diritto e alle politiche ambientali Focus: Environmental Law and Policy. Svolge attività di consulenza legale in contrattualistica internazionale ed è cultore della materia in Diritto Internazionale, Advance International Law, Diritto dell’Unione Europea presso l’Università degli Studi di Perugia- Dipartimento di Giurisprudenza.

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