La poesia, una relazione fatta di parole: intervista a Valerio Magrelli
In occasione della sesta edizione di Umbria Green Festival, abbiamo intervistato uno degli ospiti della kermesse umbra, Valerio Magrelli che ha approfondito il suo rapporto con la poetica di Andrea Zanzotto, ha parlato di luoghi e paesaggi e della forza della poesia.
IperZanzotto è un progetto ideato da Andrea Cortellessa e Stefano Dal Bianco per il centenario della nascita di Andrea Zanzotto. Per Lei quando e come è avvenuto “l’incontro” con la poesia di Zanzotto?
Io naturalmente ho letto Zanzotto intorno agli anni Novanta, avendo una formazione filosofica sono arrivato in leggero ritardo alla lettura dei classici italiani contemporanei. Come ho raccontato sul palco di Carsulae, rispetto all’opera di Zanzotto ho una posizione contraddittoria perché da un lato mi ha sempre colpito la sua sterminata cultura. Mi rendo conto che dirlo oggi nel 2021 sembra strano perché è difficile farsi l’idea di figure come la sua, come quella di Sanguineti o quella di critici come Bandini che ne introduce il Meridiano, tutte figure che reputo di una dottrina e una sapienza impressionanti, delle quali Zanzotto, nonostante avesse rifiutato la carriera accademica, è stato a pieno diritto uno degli ultimi esponenti. A tutto ciò, inoltre, si accostava la simpatia e l’affetto per una persona umilissima che ho avuto la fortuna di conoscere in numerosi viaggi: una generosità e un’apertura assoluta che, però, si scontravano con un’ostilità dei testi difficile da scalfire. Non parlo ovviamente di raccolte come Vocativo, Dietro il paesaggio, né tanto meno di Idioma, ma della Beltà. Ecco lì c’era qualcosa di duro, idiosincratico, autistico quasi, per cui di fronte a questi testi mi sentivo ammirato e al tempo stesso respinto. Ammirato e respinto, questi sono i due termini da cui sono partito per la mia relazione. Posso tranquillamente dire che Zanzotto non è stato “un mio autore”. Nelle sue opere trovo ci siano formule di una potenza inaudita perché, sia chiaro, è stato uno dei più grandi autori del secondo dopoguerra, uno dei massimi poeti italiani di quel periodo, eppure, quello che a me pesava moltissimo è che assieme ad accensioni, a formidabili conglomerati di senso ci siano centinaia di versi completamente oscuri. Questo suo “andare a tentoni” per poi lacerare il senso con delle immagini memorabili, espressioni come «osteoporosi del mondo» sono solo e soltanto sue. Anche l’uso che fa dell’iconismo è di un valore assoluto, però ripeto, io mi sentivo respinto, in qualche modo trovavo nella pagina un atteggiamento che mi tagliava fuori. La lettura completa di tutte le sue opere l’ho fatta invece un anno fa, mi son messo a tavolino ed ho letto tutta l’opera poetica. Un rapporto diverso è quello che ho avuto con i suoi scritti in prosa, verso i quali nutro, anzi, un’ammirazione sconfinata. Su tutti, gli scritti critici son quelli che preferisco, una prova assoluta per la sua grandiosa sensibilità da lettore. Senza dubbio trovo sia stato un lettore ed un critico illuminante, come pochi ce ne sono stati in Italia.
Spostiamoci proprio sugli scritti in prosa. Ripensando alle parole di Sarà (stato) futuro (A. Zanzotto, Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Bompiani, Milano 2013), la poesia per Zanzotto sembra rappresentare un luogo di strenua resistenza dove ostinatamente ricercare e ricostruire un senso condiviso, dunque “fare luogo” partendo dalle parole e riconnettere un passato remoto, «l’antichissima realtà naturale» alla base dell’idea stessa di essere umano, ad un futuro semplice, vicino, concreto, senza proiettarsi verso il futuro anteriore dei «miraggi ecologici» e del “ciò che sarà stato”, in cui la parola “natura” non è che «un relitto fonico privo di senso». Cosa ne pensa? Nel 2021 potremmo provocatoriamente banalizzarlo a mo’ di slogan in “più poesia e meno greenwashing”? In altre parole: pensa che la poesia possa avere un ruolo nel tentativo di ristabilire o riequilibrare il rapporto tra uomo e natura? La poesia può avere un ruolo tout court?
Questo saggio è la prova della grandezza di Zanzotto. Nella prima risposta non ho detto che uno degli elementi più suggestivi e potenti è la sua capacità profetica, in questo paragonabile a Pasolini: l’uno sul piano sociologico quando parla di omologazione, l’altro, Zanzotto, su quello ecologico quando parla di distruzione del paesaggio. Sono questi i suoi due grandi centri mentali, la letteratura, meglio la poesia, e il paesaggio. Di più, direi che ha avvertito, forse come nessun altro, quella che lui chiama «l’infezione» che distrugge il paesaggio; se pensiamo a Fosfeni, pubblicato nel 1983, lì Zanzotto nomina questa infezione climatica, una febbre che scioglie i ghiacciai. Non a caso ho iniziato il mio intervento per l’Umbria Green Festival dicendo che dopo più di centinaia di migliaia di anni era piovuto in Groenlandia, non nevicato: è la dissoluzione della natura e dei ghiacciai che Zanzotto ha presente con mezzo secolo di anticipo su quello che stiamo vivendo adesso. Sulla situazione attuale, dal canto mio, sono talmente pessimista da giudicare che, fenomeni umani come la deforestazione, gli allevamenti intensivi di bovini e la combustione dei fossili ci stiano portando alla fine del mondo per come lo conosciamo, la fine del nostro mondo. Personalmente credo non ci siano alternative percorribili se non quella di un controllo demografico sistematico. Tornando a Zanzotto, se messo in relazione con l’inadeguatezza delle misure politiche attuali, l’anticipo che ne risulta si fa ancora più pesante; penso ad esempio al protocollo di Kyoto che poi venne abbandonato dall’America di Trump. Finché i governanti – ma anche chi li vota – continueranno ad essere sordi a queste minacce il mondo così come è ora si avvicinerà inevitabilmente alla sua fine, non esisterà più, e non per la bomba atomica ma per la rapacità produttiva dell’uomo, per la sua incapacità di ascoltare i lamenti della natura, i gridi di aiuto per la riduzione delle specie per citarne uno su tutti. Detto ciò, però, per me la poesia è il luogo della libertà assoluta. Dunque, ben venga Zanzotto che, sotto questo punto di vista, è stato un eroe civile preannunciando la morte del paesaggio e la morte dell’uomo come prodotto del paesaggio, ma la poesia non deve fare nulla. La poesia di Zanzotto, la poesia di Sandro Penna che racconta un ragazzo che si tuffa nel fiume o che va al cinema, è poesia perché pertiene l’umano e non deve, non può, avere limiti.
Mettiamo insieme qualche tassello: l’avvicinarsi della fine, l’ipotesi di un controllo demografico, la distanza tra passato e futuro. Rileggendo alcune sue opere, ho avuto la sensazione che la sua poesia, da un certo punto in poi, si collochi nella distanza tra generazioni: Lei, i suoi genitori, i suoi figli. Una lontananza da abitare con la mente e con lo sguardo, uno studio attento e interessato dell’altro/all’altro. Non separazione ma tensione, un tentativo di comprensione e sospensione meravigliata come quando in Disturbi del sistema binario annota la grazia con cui suo figlio alza la gamba mentre beve da una fontanella: «Immagine di poesia, la figura / paterna che si nutre di me, / la tenia che divora da dentro la mia vita? / Immagine di poesia è la figura / di mio figlio, […]». Quello del divario e delle responsabilità generazionali è un tema delicato quando si entra nel dibattito sulla crisi climatica e ambientale. Soprattutto i più giovani si interrogano sulla responsabilità del mettere al mondo nuove vite e, a tal proposito, non posso fare a meno di pensare a Elegia, anch’essa in Disturbi del sistema binario: «Ciò che ti è caro muore, ciò che muore / ti è caro, se qualcosa ti è caro, / è perché muore». In esergo ha messo i versi di Philip Larkin: «L’uomo passa all’uomo penuria. / Si approfondisce come un’insenatura. / Esci prima che puoi, / e non fare figli tuoi» che, come spiega nella nota, per Lei «indicano il divario tra ciò che sarebbe stato giusto e ciò che invece è stato vero». Come si fa a tenere insieme tutte queste cose? Cos’altro si può scorgere nel divario tra giusto e vero?
Credo vada fatto un distinguo tra prima e dopo la pandemia che, per me, è stata una frattura mentale ed epocale. Quei versi li scrivevo prima della pandemia, quindi si figuri quale può essere il mio grado di pessimismo oggi! La differenza è che prima del Covid il mio era un pessimismo ontologico, dopo il covid, non si tratta della tradizione che va da Erodoto a Leopardi del “meglio non essere nato”, ma siamo addirittura oltre. C’è una poesia, Era già sera in terra, che ho scritto su mia mia figlia, in cui descrivo il suo salire le scale di casa di ritorno dall’allenamento e si apre con la citazione da un passo di Nietzsche che si interrompe proprio nel momento in cui Re Mida blocca il Satiro e gli chiede «cosa dobbiamo fare noi mortali?» e il Satiro gli dice «meglio morire». Con la pandemia non si poteva che peggiorare, non dico nient’altro proprio perché io stesso non so come reagire… e non si tratta solo dei migranti climatici, la crisi è ben oltre. Il fatto stesso che la Germania o il Giappone, due tra i paesi più accreditati tecnologicamente a livello mondiale, siano stati devastati da alluvioni e da tsunami, ci dà la misura di quanto il momento che stiamo vivendo sia cruciale, posto che ci sia ancora del tempo. Nella mia nuova raccolta poetica – dovrebbe uscire il prossimo anno, dopo otto anni da Il sangue amaro – c’è una poesia che parla di questa differenza di prospettive, questo slittamento che abbiamo innescato: una cosa è vivere coscienti della propria morte, della morte termica dell’universo e dell’entropia che son cose che accadranno tra miliardi di anni, cosa ben diversa è la consapevolezza, il rischio concreto di morire prima della fine di questo secolo. Recentemente ho letto Viaggio nell’Italia dell’Antropocene in cui Telmo Pievani spiega che l’Italia potrebbe diventare come la Norvegia, una terra di fiordi, con il Vaticano e la Pianura Padana sotto il livello del mare. A me dispiace arrivare a scenari tanto catastrofici solo che non è più possibile far finta di non vedere. Eppure, a cosa siamo disposti a rinunciare? In Danimarca hanno sterminato tre milioni di ermellini per il pericolo del salto di specie. Potremmo diventare tutti vegani ma temo non basti, si dovrebbe rinunciare alle macchine, ridurre il turismo, vietare gli aerei privati e tanto altro. Per questo credo che la prima e unica soluzione realisticamente percorribile sia il decremento demografico, portando magari la popolazione mondiale a tre miliardi di persone invece di otto, una cifra che sia di nuovo sostenibile.
Ritornando al saggio zanzottiano citato sopra, emerge come il “progresso-scorsoio” abbia messo in moto un processo di «banalizzazione della storia» il cui risultato è una temporalità stravolta, tutta orizzontale, alla quale – aggiungo io – finiscono per aderire anche la nostra percezione ed immaginazione. Nella sua poetica invece c’è un senso di verticalità, il tempo e la memoria si formano per stratificazione, concrezioni minerali il cui accrescimento segue un tempo profondo, denso. Penso ovviamente a Geologia di un padre ma anche alla sezione “Nel buio” in Nature e venature, ad esempio. Di cosa parla, cosa riesce ad esprimere un tempo verticale?
Io credo che l’umano sia proprio legato alla memoria, al legame con chi ci precede e chi ci segue. Per me la poesia è sempre più legata a ciò che ci circonda, è un legame che sento sempre di più. La poesia per me ora è difesa dell’elemento umano ma non è sempre stato così. Prendiamo Ora serrata retinae, ero molto giovane quando l’ho scritta, quella è una poesia molto più solipsistica, con poca apertura verso l’esterno. In questo senso, per come la vedo ora, posso dire che il linguaggio è comunione e dunque la poesia, come ha detto Iosif Brodskij, è addirittura la «meta genetica» dell’essere umano. Per quanto possano apparire distanti la poesia e il paesaggio oggi, se essere significa parlare, mettere in relazione, il linguaggio nomina, ci dà accesso alla realtà. Quest’opera di tessitura propria della poesia, Lévinas la chiamava “scambiare sguardi”, uno scambio di sguardi, di parole attraverso gli occhi, come quello che avviene in un teatro, immaginando il teatro come ambiente. Con questa convinzione, quindi, quando io penso alle centinaia di navi piene di container che trasportano merci da una parte all’altra del mondo bruciando quantità indicibili di combustibile e sostanze inquinanti, penso che l’ultima resistenza, veramente l’ultimo legame con l’essere è quella relazione fatta di parole, che tenta di afferrare cosa sta accadendo, e dunque la poesia.