La lezione di scienze naturali di Emily
Almeno duecento poesie di Emily Dickinson svolgono un tema naturalistico, con un tono di constatazione obiettiva dei fenomeni, presa d’atto di un’entità che non va interrogata (a differenza del Signore), non conoscibile del tutto in quanto consustanziale. Non occorre andarle incontro o muoversi per farne esperienza: “Perché viaggiare verso la Natura, dal momento che sta con noi? Coloro che si toglieranno il cappello, la vedranno, come i pii vedono Dio”.
Se è una madre soave e sorridente, è pure artefice di irretimenti crudeli, per lo più indifferente, una maestra che può istruire su come prendere la vita con filosofia, sull’esempio dell’intrepido rovo con la spina nel fianco, che non si lamenta e sale in alto arrampicandosi verso il cielo. A dispetto della levità del tocco, il suo è un approccio al contempo religioso e scientifico, dal microscopico e dall’infinitesimo giunge al macroscopico e all’infinito, in senso anche fisico-astronomico. In parallelo dalla materia e dal livello primordiale passa al piano mitologico, nel quale la natura è supporto e contenitore, ma i contenuti sono culturali. Tutto è simbolico, non c’è spazio per animismo o spiritismo, magia, politeismo, perché è solido l’impianto monoteistico. Si afferma in tal modo la “sovranità” dell’essere umano, non nella potenza tecnica di asservimento e sfruttamento delle risorse, bensì nella creatività come risposta sintonica col creato, la capacità di distinguere e differenziarsi, utilizzando l’intelligenza per conservare il meglio, preservare il bello, aumentare la vivibilità. Il linguaggio nella sua forma più elaborata e raffinata contribuisce a edificare una identità specifica, alzando la posta delle aspettative, al massimo grado nel poeta, che sa tradurre un’apparenza ordinaria in senso stupefacente, un demiurgo che ricrea nell’immaginazione l’intero spettacolo dell’universo:
Valuto – quando faccio il conto –
al primo posto – i poeti – poi il sole –
l’estate – e il cielo di Dio –
ed ecco – la lista è finita –
Ma, ripensandoci – i primi sembrano
tanto comprensivi di tutto –
che il resto appare superfluo –
e così ai poeti ascrivo – tutto –
(n. 569, 1862)
Domina in Dickinson la narrazione di un Io vigile e cosciente, che riflette l’esterno e lo riproietta addizionato di uno scenario interno, argomentando con serietà il suo punto di vista. La guardiana del faro di un’isola mentale nota che nel regno naturale vi sono momenti senza pretese, in cui il cielo è basso e le nuvole meschine, pare che tutto il giorno un vento sottile si lagni del maltrattamento, “la Natura a volte la si scopre, come noi, / senza diadema”. La bella stagione, al pari del dolore, se ne va impercettibilmente, non si può parlare di perfidia, nel vespero inoltrato la quiete fa presumere che la terra voglia starsene per suo conto, l’ombra cala più presto, il mattino seguente brilla con una tonalità dolente di commiato.
Sempre pronta a vergare missive e biglietti, attribuisce a uccelli e insetti intenti comunicativi, come quando fa scrivere una lettera all’ape da parte della mosca, tenendo conto dei tempi di spedizione e consegna (n. 1035, 1865).
Ape! Ti sto aspettando!
Proprio ieri dicevo a qualcuno che conosci bene
che dovevi arrivare
Riceverai questa mia il diciassette.
Rispondi, o meglio:
vieni qui da me –
La tua, Mosca
La metamorfosi e amplificazione di sé si veste da rosellina ai bordi del sentiero, allodola e ragno, farfalle in corteo, grilli profetici, minuscoli saggi per istinto. Si descrive con una faccia da canguro, si assimila al segugio o all’esotico leopardo dal manto maculato, la fiera belva screditata in ambito civile e invece di gran pregio nei deserti asiatici. Ricorre a riferimenti ornitologici per far intendere il suo atteggiamento, il fatto di non migrare, di mettere le ali nell’immobilità, di cantare senza
astanti o pubblico. Si riconosce nel Robin, un pettirosso tipico della sua zona, oppure in una Phebe, della famiglia dei pigliamosche, con cresta, dorso grigio bruno e petto bianco giallo. Si presenta come uno scricciolo gracile, un passeriforme con coda dritta e corta, piumaggio bruno rossiccio, voce trillante e melodiosa.
Per lei vi è un tipo umano antracite e uno torba, l’oceano divide per consentire una vicinanza più dinamica e onesta, l’ambizione è calibrata sui cieli infiniti e non sui premi sociali, il sentimento e il debole provati nei confronti di qualcuno vanno accettati per quel che sono, è inutile punire il miele perché diventa solo più dolce. E ancora, la desolazione mentale è una sera senza luna e stelle, è consolatorio morire a metà dell’estate quando il tempo è pieno e perfetto, il corteo funebre migliore sono i botton d’oro (Trollius europaeus, una ranunculacea con fiori gialli), il destino è una pietruzza caduta in alto mare. Non sono tanto metafore, quanto letture più precise della realtà in una sorta di esperanto spontaneo.
La monaca deviante (The Wayward Nun) a fine giornata si rivolge alle montagne, possenti Madonne, chiedendo loro di proteggerla, il rapporto è esclusivo, quasi fosse l’unica persona vivente consapevole. Si spinge a rivaleggiare coi grandi pittori italiani (Tiziano, Domenichino, Guido Reni), dipingendo il tramonto con pennellate di colori vivaci, dal rosso scarlatto al blu zaffiro, fuochi e fiamme impressionanti finché cade “una cupola d’Abisso” (n. 291, 1861).
Il suo esistere è nudo e semplice, nella completa solitudine dell’essere, uno stato ridotto all’essenziale e perciò di eccezionale profondità:
Cantava il grillo
e tramontò il sole
gli uomini al lavoro finirono uno a uno
l’orlatura del giorno.
L’erba bassa s’intrise di rugiada
il crepuscolo esitò, come fa lo straniero
col cappello in mano, cortese e inesperto,
indeciso se restare, o andare.
Venne una vastità, come un vicino della porta accanto,
una saggezza, senza volto, o nome,
una pace, come emisferi a casa –
e così fu notte
(n. 1104, 1867)