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Mondo desolato

Insalubrità delle città, povertà diffusa, minori trascurati, donne maltrattate, filantropia di facciata, inflazione giudiziaria, natura e senso del dovere ultime speranze: Dickens e il disagio sociale.

Charles Dickens (1812-1870) è considerato quasi un’immaginetta sacra, estratta dai cassetti televisivi in periodo natalizio, un prodotto che garantisce la giusta commozione e i buoni sentimenti intonati all’apologia della famiglia (oggi consumistica). In vita non gli era certo mancato il successo editoriale, basti dire che Il Circolo Pickwick (1836-1837) aveva venduto alla prima pubblicazione quarantamila copie, David Copperfield e Casa desolata (1852-1853) trentaquattromila a puntata. Le vicende personali, il periodo trascorso in uno dei quartieri più miseri di Londra, l’abbandono e l’indigenza sperimentati da fanciullo in seguito alla carcerazione per debiti del padre e della madre, la precoce e obbligata attività lavorativa dagli 11 ai 13 anni (dieci ore al giorno in una fabbrica di lucido per scarpe), aiutano a comprendere la sua propensione a registrare i buchi neri del mondo dei grandi, e più in generale a descrivere fedelmente la realtà di abbrutimento e sofferenza dietro la recita della normalità.
Dotato sin da piccolo di un’ottima memoria fotografica, non sorprende il suo percorso di cronista parlamentare, stenografo presso tribunali, giornalista itinerante, in parallelo alla recitazione teatrale, tutte fonti cui ha attinto per creare i notissimi Sketches by Boz che gli hanno aperto la via della fama. Non aveva comunque sia lesinato l’impegno concreto in battaglie civili, infatti nel suo primo viaggio sul suolo americano, tra Boston e New York, aveva pronunciato in Virginia un duro discorso contro lo schiavismo.
La sua sensibilità umana si associa pure all’acume grazie a un’attenta osservazione dei fenomeni sociali, tanto è vero che in Casa desolata (novecento pagine di arte del narrare) anticipa la scoperta della correlazione tra il colera e l’acqua potabile contaminata dalle feci, fatta dal dottor John Snow nel 1854, nel contesto del sovraffollamento e delle pessime condizioni igieniche della City londinese. Durante l’epidemia più grave era persino stato chiuso il parlamento per via dei miasmi del Tamigi.

Un primo tema istruttivo del citato romanzo è quello dell’eccesso di funzione dei rappresentanti della Legge, che impone alla complessità della psicologia umana il riduzionismo e le tortuosità delle aule di tribunale, stritolando in terribili tenaglie astratte e burocratiche la società moderna, il cui esito sono sentenze talora più ingiuste della palese ingiustizia.
Dickens sbeffeggia la Corte di Giustizia del Lord Cancelliere, “scelleratissima e decrepita peccatrice”, nella quale si dibattono cause secolari senza mai giungere a conclusioni ragionevoli, non per nulla in chancery significa pure situazione senza via d’uscita. Un ambiente su misura per gli avvocati, che vi si aggirano baldanzosi dandosi aria di equità come tanti attori, a differenza delle vittime che patiscono danni irreparabili. Un pozzo nel cui fondo invano si cercherebbe la verità, macchina che dà ai danarosi abbondanti mezzi per abusare del diritto, al punto di far ritenere preferibile sopportare i soprusi: “Soffrite qualsiasi torto ma non venite qui!”. L’anziana matta che tutti i giorni presenzia alle sedute in attesa del Giudizio Universale per aver pace e liberare gli uccellini tenuti in gabbia, ricorda che quando è iniziata la sua contesa era una pupilla, giovane, bella, piena di speranza. I nobili e i notabili, al contrario, a cominciare dal baronetto Leicester Dedlock, considerano l’Alta Corte un frutto della saggezza perfetto per la gestione della collettività.
Secondo tema di meditazione critica è la rete di salvatori dell’umanità, che si dividono la torta dei derelitti tra chi vuol salvare il corpo e chi l’anima, raramente tutti e due. In Dickens difatti i filantropi diffondono il male illudendosi o pretendendo di fare il bene, perché soddisfano esclusivamente l’egoismo, la loro intima gratificazione deriva dall’accreditarsi buoni e guidati da motivazioni superiori. Così Mrs Jellyby ha l’abitudine di guardare lontano, quasi non potesse vedere più vicino dell’Africa, occupandosi di una grande varietà di problemi generali, quali coltivare caffè ed educare gli indigeni di Borrioboola-Gha nel continente nero (allusione alla fallimentare spedizione in Niger dell’African Civilization Society). Indaffarata con le associazioni pubbliche e i privati in ansia per il benessere del globo, desiderosa di curare le preziose anime fra gli alberi di cocco e nelle isole coralline del Pacifico, non si accorge delle condizioni di degrado dei bambini presenti sotto il suo tetto. La figlia maggiore, macchiata ovunque di inchiostro essendo obbligata a vergare per suo conto lettere di propaganda ininterrottamente, odia la genitrice, il cui istinto materno è rivolto in esclusiva alla missione (il progetto africano è il suo unico “figlio”). Tuttavia, se la Signora Jellyby ha lo sguardo fisso altrove, è per non rendersi conto di quel che ha davanti, si tiene occupata per non provare delusione e angoscia per lo stato in cui versa la famiglia, il fallimento come moglie e madre. Sicché deve scrutare l’orizzonte col telescopio per cercare altri obblighi, mentre non assolve quelli naturali e prossimi.
Lo scrittore ironizza sulle schiere di donne che si segnalano per la “rapace benevolenza”, sempre intente a riunirsi in comitati, raccogliere sottoscrizioni e fondi, spendere denaro: la Confraternita di Maria Medioevale, le Figlie di Britannia, le Donne d’America, le Sorelle di tutte le virtù cardinali separatamente. La morale è che sarebbe opportuno cominciare dai doveri di casa, che non si possono trascurare e sostituire con altri; e pure che esistono due classi di persone caritatevoli: chi fa poco ma suscita grande scalpore e chi fa molto senza farne pubblicità.
Gli aristocratici amano discettare del “Popolo”, una folla di individui in sovrannumero di cui si deve di tanto in tanto parlare per averne grida e cori teatrali, perché solo i primi attori, i capi e gli impresari possono presentarsi sul palcoscenico pubblico. Dickens scherza sulla moda del dandismo religioso, nel quale per un apatico bisogno di commozione si è convinti che i nullatenenti manchino di fede e pertanto abbiano il dovere di credere in Dio. In alternativa è assai chic e meno impegnativo avvolgere il mondo di bambagia e nascondere la realtà, in modo che tutto sia solo leggiadro e frivolo.
Mrs Pardiggle impone ai poveri le sue visite di “carità all’ingrosso”, nelle quali si limita a porre domande sullo squallore, per poi leggere pagine di un testo ecclesiastico, tenendo il nucleo famigliare “in arresto religioso”. In pratica piomba sugli indigenti ai quali applica il suo credo confessionale a mo’ di camicia di forza. Mr Chadband, reverendo per sua elezione e predicatore senza titolo, ha un uditorio esclusivo e “cattura” ragazzi senza fissa dimora che gli servono per esercitare la sua funzione salvifica, a beneficio della comunità. Dice infatti all’analfabeta Jo, spazzino per racimolare di che vivere, che non può lasciarlo al suo destino: “Perché sono un mietitore e un instancabile lavoratore, perché sei stato affidato a me quale strumento prezioso nelle mie mani”.

C’è altresì chi sostituisce all’azione l’intenzione, cioè si convince di essere sincero, di voler veramente fare del bene, perché in fondo è sufficiente per sostenere l’autostima e tacitare una piccola coscienza. Non mancano coloro che avversano chi cerca di impedire ai deboli di cadere, essendo interessati a rialzarli quando sono a terra con grandi strombazzamenti e vanterie.
D’altronde chi ha una missione non si cura di quella altrui, parla solo del proprio argomento preferito, come Miss Wisk, femminista ante litteram, certa che la cosa più importante sia l’emancipazione della donna dalla servitù al suo tiranno, l’uomo. Al contempo il suddetto Jo, ombra vagante senza fissa dimora, importa meno di un cane randagio, perché non è un indiano, non è un africano, non è addolcito dalla distanza e dall’esotismo, non è un selvaggio genuino cresciuto nei deserti e nelle foreste, è una banalità fabbricata in loco: “Lo insozza il patrio sudiciume, lo divorano i parassiti nostrani, lo tormentano le patrie piaghe, lo coprono gli stracci comuni: l’ignoranza natia, prodotta dal suolo e dal clima inglesi, spinge la sua natura immortale al di sotto delle bestie”.
Nel Capitolo intitolato “Il nostro caro fratello”, viene trovato cadavere in una buia stanzetta un anonimo copista, chiamato Nemo in assenza di informazioni di sorta, probabilmente morto a causa di una dose eccessiva di oppio. Il disgraziato raggiunge sottoterra moltitudini di nessuno come lui: “Qui viene sepolto nella corruzione per poi levarsi nella corruzione: spettro vendicatore al capezzale di molti malati e vergognosa testimonianza per il futuro di come erano unite la civiltà e le barbarie in questa nostra presuntuosa isola”. Parole pertinenti pure nella nostra penisola.
Con altrettanta maestria viene affrontato il tema della violenza nelle classi subalterne, descrivendo il clima dei sudici quartieri ove i bimbi muoiono in fasce, gli uomini sono dediti all’alcool e alle risse, le donne hanno gli occhi pesti e i segni delle botte ricevute regolarmente, il marito è chiamato “il mio padrone” e va servito sotto minaccia di morte, la solidarietà femminile è muta, espressa appena col tono della voce. Il dottor Woodcourt si offre di medicare e fasciare una ferita sulla fronte di Liz, incontrata all’alba seduta su un marciapiede in attesa dell’apertura di un affittacamere, e non ha il minimo dubbio su cosa sia accaduto, cioè che sia stata picchiata dal coniuge mattonaio, sapendo quanto siano crudeli con le consorti. E può dare per scontato che, nonostante la brutalità, lei lo assolverà: “E io spero che meriti il suo perdono”. L’ispettore Mr Bucket in una successiva occasione conferma: “Anche uno sciocco sa che una povera creatura come lei, battuta, presa a calci, piena di cicatrici e contusa da capo a piedi, obbedirà senz’altro al marito che la maltratta”.

Dickens ritrae in modo indelebile soprattutto la solitudine dei bambini orfani o abbandonati, affidati alla strada e al caso, obbligati per sopravvivere a rubare, elemosinare, fungere da schiavi, vendersi (prostituirsi in senso stretto e lato). “Circolare!” dice il poliziotto a Jo, che non sa niente di sé e del mondo, nell’omonimo Capitolo. Per non dar fastidio e non offrire lo spettacolo del degrado ai cittadini in regola, i ragazzi privi di cognome, padre, madre, abitazione, dovevano in effetti vagabondare senza sosta. Nella satira degli orfanatrofi e della filantropia “all’ingrosso” si ricordano anche tragici fatti reali, come la morte nel 1849 di più di centocinquanta piccoli ospiti nel noto asilo di Tooting.
L’autore, con immediatezza quasi cinematografica, illumina la scena di un tugurio nell’area cittadina destinata a mendicanti e straccioni, ove due uomini dormono a terra e due giovani donne si commiserano a vicenda. Jenny ha perso da poco il suo neonato per malattia e Liz ne strige uno di tre settimane sul petto livido, sostenendo con amarezza che è meglio pensare ai morti che ai vivi e preconizzando disgrazie che rendono pietoso il decesso in tenera età: “Mio marito non ne vorrà sapere, e lui sarà picchiato e vedrà picchiare me, e avrà paura di casa sua, e forse fuggirà lontano, prenderà una cattiva strada, nonostante quello che potrò fare io, e verrà il tempo in cui starò accanto a lui addormentato, diventato cattivo, forse non penserò di lui come ora che mi giace in seno, e desidererò che fosse morto come è morto il bambino di Jenny”.
Non va molto meglio qualche gradino più su nella scala sociale. Mr Turveydrop, titolare di una scuola di danza, è un padre di pura rappresentanza, campione di portamento nobile, il suo dovere è verso la società e consiste nel mostrarsi in città, nei confronti del figlio ha solo diritti e si attende di essere onorato e mantenuto. Pertanto vive a mo’ di parassita sulle spalle del giovane, perché si attribuisce tutte le qualità innate e gli rammenta che deve industriarsi essendone privo. Per non dire del personaggio di Skimpole, genitore di tre figliole decorative che gli reggono lo specchio, mentre lui si balocca nella posa di perenne fanciullo innocente, al quale non si può chiedere che capisca di denaro e si attende di restare in sella al suo cavallo a dondolo. Per Skimpole il sentimento della responsabilità è sempre stato al di sopra o al di sotto di lui, tutt’al più la colpa è un copione da recitare: “Non sono come un bambino italiano stretto dalle fasce, avvinto dai pregiudizi. Sono libero come l’aria. In questo mi sento al di sopra di ogni sospetto, come la moglie di Cesare”.
A compensazione del regime di nebbie e tenebre nel romanzo rifulge quale miracolo di luce e bellezza l’orfana Esther Summerson, che cresce sapendo di non aver portato gioia e di non essere per nessuno ciò che la bambola è per lei. La “figlia dell’estate” capisce presto di occupare un posto che doveva restare vuoto, perché la madrina le ricorda che sarebbe stato meglio non fosse mai nata, e si vota all’abnegazione per reggere un’esistenza iniziata sotto una tale ombra. Il ricco tutore, presso cui da grande trova ospitalità quale dama di compagnia (preludio del lieto fine meritato), rileva che la progenie dei poveri non è allevata, bensì trascinata o “capitombolata”, dato che molti mettono al mondo figli e poi non se ne curano. Esther perciò ammonisce sé stessa nei momenti di crisi: “Al dovere, mia cara”. La preghiera infantile nella quale si augura di essere diligente, gentile e buona, di fare del bene e, se possibile, farsi voler bene, le arreca pace interiore e le giova, perché la stimola a modellarsi eticamente motivandola a vivere nonostante tutto. Occorre perciò fidarsi di nient’altro che della Provvidenza e dei propri sforzi per salire colossali scalinate, pur respinti da impedimenti continui, non diversamente dal bruco sul sentiero in giardino. Perché la sorte remunera chi agisce nella consapevolezza dei propri limiti e rimane umile. Esther infatti sa guardare verso l’alto tenendo ben saldi i piedi a terra: “Alzai gli occhi alle stelle e pensai ai viaggiatori in paesi lontani e alle stelle che vedevano loro: sperai di poter essere sempre così felice da rendermi utile agli altri coi miei modesti mezzi”.
E dunque? Verrà forse dalla scuola la soluzione dei problemi sociali? Nient’affatto. Perché l’essere umano non è una pagina bianca e l’età evolutiva non è un terreno di semina che garantisca raccolti in astratto. Dickens evidenzia il fallimento di un’istruzione che consiste nell’apprendere a memoria domande e risposte, generando nella mente larve che non producono mai una sola farfalla. E pone l’accento sul fatto che l’educazione per lo più non è davvero tale, cioè non è formativa, per cui non riesce a contrastare gli influssi negativi dell’ambiente e del carattere. Esemplare il giovane Richard, avvolto da una massa di incertezze durante lo sviluppo, abituatosi a rinviare in attesa dell’occasione giusta senza sapere quale, lasciando ogni cosa nella vaghezza e nella confusione. In otto anni in collegio ha imparato perfettamente a scrivere poesie in latino, però nessuno si è preoccupato di scoprire la sua vocazione e di individuarne i difetti caratteriali. L’amica Esther considera: “Tuttavia, benché fossi certa che si trattasse di versi educativi e belli, assai utili in molti casi della vita e degni di essere ricordati per sempre, mi chiedo se Richard non avrebbe tratto più vantaggi se, invece di studiare tanto i versi, avesse trovato qualcuno che studiasse un poco lui”. È altresì uno sbaglio fidarsi delle qualità personali senza curarsi di imparare a moderarle e guidarle, perché esse sono come l’acqua e il fuoco, eccellenti servi ma pessimi padroni. Inoltre, se si lascia crescere troppo a lungo la malerba, non è più possibile farne una pianta da giardino. Istantanee che paiono scattate oggi, lucide letture che sono schiaffi morali ai sedicenti esperti da salotto televisivo e corsi di aggiornamento.
E infine, l’ultima speranza, l’eterno mistero insondabile e pacificatore del creato:
“Era magnifico vedere il vento che si levava e piegava gli alberi, spingendo la pioggia come una nuvola di fumo, udire il tuono solenne e scorgere il fulmine; e, nonostante il senso timoroso delle formidabili forze che circondano le nostre fragili vite, considerare quanto siano benefiche e come sul fiore e la foglia più minuti quella furia apparente avesse già versato una freschezza che sembrava rinnovare la creazione”.

Biografia

Psichiatra e sessuologo nell’ATS di Milano, è stato cofondatore e presidente della prima Associazione italiana in tema Aids, collabora con l’Ordine dei Medici di Monza per iniziative di formazione e con riviste di divulgazione letteraria. È autore di saggi di psicologia sociale e critica culturale, tra i quali: Che colpa abbiamo noi (2013), Tracce vive (2016), Viva Dalida (2017), Questo matrimonio non s’ha da fare (2019), Tra di noi l’oceano (2021, premio letterario internazionale Antica Pyrgos). Di recente pubblicazione Di petrolio e poesia. L’eredità di Pier Paolo Pasolini (2022). Un vasto archivio di scritti è consultabile sul sito www.mattiamorretta.it

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