
Land grabbing: una competizione diseguale
Quando si parla di territorio non si parla soltanto di una porzione di ambiente naturale. Si fa, infatti, riferimento ad una interconnessione tra tutto ciò che si trova in un luogo preciso composto da vegetazione, acqua e terra, dalle risorse aeree e minerarie – sfruttate o difese – da infrastrutture e produzioni di vario genere pensate e costruite dall’uomo, nonché dalle istituzioni nazionali e sovranazionali a cui è affidato il compito di regolamentare i rapporti tra i soggetti, i gruppi, le comunità che ne agiscono lo spazio. Proprio a causa di questa processualità dinamica, vissuta da vari agenti a loro volta mossi da differenti interessi sull’area, definire la proprietà del territorio significa spesso definire gli equilibri sociali che la caratterizzano.
Equilibri che spesso derivano da dinamiche attivate in altri luoghi, molto distanti dal territorio specifico sul quale ci si relaziona.
Se il tema del land grabbing è tornato con prepotenza sul tavolo della Cop29 a Baku, dopo anni di colpevole e collettivo silenzio, bisogna però tornare al 2008 per capire il fenomeno. È stato, infatti, quello l’anno in cui ha cominciato a farsi sempre più insistente un nuovo allarme, una nuova minaccia per le popolazioni più povere e vulnerabili.
Secondo fonti allora prevalentemente giornalistiche, si stava affacciando infatti sulla scena internazionale un fenomeno in rapida ascesa che vedeva superfici immense di terre coltivabili nei Paesi in via di sviluppo passare sotto il controllo di attori internazionali, attraverso transazioni che sollevavano già allora più di un dubbio sia sotto il profilo etico che della legittimità.
Milioni di piccoli agricoltori, pastori nomadi, pescatori e cacciatori stavano perdendo l’accesso alle proprie terre, case e territori. Un fenomeno che si presentava in corrispondenza e coincidenza con una delle più grandi crisi mondiali: quella dell’impennata dei prezzi dei generi alimentari.
Sono, infatti, stati molti i Paesi che, di fronte ad uno scenario internazionale non più sicuro, hanno modificato le politiche di approvvigionamento orientandosi verso una vera e propria delocalizzazione della produzione alimentare, oppure hanno incrementato la produzione di agrocombustibili a causa della domanda proveniente dalle politiche energetiche di Stati Uniti ed Unione Europea.
Scelte che hanno contribuito all’espropriazione delle popolazioni locali dalle terre dalle quali dipendevano per la loro sussistenza, oppure hanno attivato un braccio di ferro serrato tra le comunità interessate a loro volta ad entrare nella produzione su larga scala ed il potere economico e politico dominante.
Situazioni critiche che l’allora relatore speciale sul diritto all’alimentazione delle Nazioni Unite si spinse a definire “crimine contro l’umanità”.
Le terre che fino a poco prima sembravano di scarso interesse per gli investitori internazionali, si ritrovano [oggi, ancora di più] al centro di una competizione, altamente diseguale, tra le comunità rurali povere e dai diritti particolarmente vulnerabili dei paesi in via di sviluppo, stati nazionali e colossi privati.
Il diritto alla terra costituisce la base primaria per l’accesso al cibo, alla dimora e allo sviluppo ed è quindi un diritto umano essenziale che rischia di essere negato proprio dalla pratica del land grabbing.
Le comunità indigene, le quali rappresentano circa il 5% della popolazione mondiale, lottano per esercitare il loro diritto alla terra proprio laddove sono costrette a cedere ampi spazi alle politiche di sviluppo statale, alla conquista di ricavi economici, ai conflitti armati, ed oggi anche all’innalzamento del livello del mare dovuto ai cambiamenti climatici che causano disastri ed erosioni.
I popoli indigeni salvaguardano l’80% della biodiversità tutt’oggi presente sul nostro
pianeta. Alcune delle terre e delle acque biologicamente più importanti sulla superficie terrestre sono ancora intatte grazie alla gestione operata dalle popolazioni indigene.
Tuttavia, solo una parte di queste terre è ufficialmente riconosciuta dagli Stati come di proprietà di coloro che se ne occupano. Con il risultato che l’incapacità di circa 370 milioni di indigeni del mondo di accedere e controllare la loro terra minaccia la loro stessa esistenza e mette a repentaglio la corretta gestione di questo unico bene globale.
Ovunque, nel mondo, le dinamiche di potere connesse al land grabbing privilegiano gli interessi dominanti rispetto a quelli delle comunità indigene, le quali si trovano nella situazione di rischiare la povertà estrema tre volte tanto rispetto a qualche decennio fa.