
L’impegno, la sfida e la responsabilità
È motivo di orgoglio, per me, dirigere da oggi Umbria Green Magazine, ricevendo le redini da Daniele Zepparelli, che in questi anni ha dedicato – e continuerà a farlo in maniera sempre originale e creativa – il suo tempo e le sue risorse alla costruzione di due contenitori unici, portanti e importanti come la rivista e il Festival omonimo.
È un orgoglio, ma è anche e soprattutto una sfida che impegnerà tutti noi: quella di declinare il tema green in tutte le categorie dell’Umanesimo e della contemporaneità, raccogliendo una bella eredità, a fianco di una redazione capace e attenta, resa più ampia da nuovi ingressi caratterizzati da competenza, passione ed esperienza di campo.
Ma, ancor prima, è una responsabilità: quella di provare a costruire Cultura, affrontando i temi dell’attualità attraverso lenti prospettiche nuove e rivolgendoci ad un pubblico il più possibile variegato e intergenerazionale.
Per questo motivo ho scelto di occuparmi, per prima cosa, di una domanda che assilla tutti noi che abitiamo questo Pianeta, messo in difficoltà dalle scelte pregresse e dall’urgenza di trovare soluzioni che definiscano un paradigma di messa in sicurezza e appianamento delle diseguaglianze dovute al climate change:
PERCHE’ NON CREDIAMO DI ESSERE IN PERICOLO NELL’ERA DELL’EMERGENZA CLIMATICA?
“Abito, dunque non temo nulla”. Eppure, sono le nostre scelte, le nostre azioni nei confronti dei luoghi che abitiamo a definire le nostre stesse identità e, soprattutto in quest’epoca, il nostro livello di sicurezza. Siamo corpi e geografia. Ecco perché decidere di non mettere in salvo l’ambiente significa non mettere in salvo neppure noi stessi.
Ma perché non crediamo di essere in pericolo? Innanzitutto, perché non lo sappiamo. Nessuno abita una ‘zona rossa’ avendo la certezza assoluta di essere realmente sottoposto ad un rischio concreto. Eppure, in Italia, oggi, un milione e trecentomila cittadini vivono in zone estremamente fragili.
La narrazione stessa delle calamità naturali spesso non ci aiuta a percepirle. Le alluvioni che hanno coinvolto l’Emilia-Romagna e la Sicilia, in tempi più recenti, così come le immagini tragiche che provengono dalla Spagna, vengono descritte anche a livello giornalistico come ‘apocalittiche’, ‘incredibili’, ‘impensabili’, ‘assurde’. L’assurdità, al contrario, è quella di non essere riusciti ad immaginarle nonostante altri esempi di uguale portata nel mondo e ciò è avvenuto anche perché l’utilizzo di questa terminologia descrittiva insiste nel relegare l’evento calamitoso in una categoria che è altro da noi o che appartiene alla fantascienza, allontanandoci dalla percezione della realtà.
Eppure, le parole sono importanti per costruire una corretta percezione del rischio, perché le parole generano significati condivisi nella società e, a loro volta, i significati collettivi svolgono l’importante funzione di costruire credibilità.
Ci sono poi altri motivi, sempre di natura antropologica, se non crediamo realmente di essere in pericolo: l’identificazione con il luogo in cui si abita è, infatti, tale da mediare la percezione stessa del pericolo a cui siamo sottoposti.
Più i soggetti si identificherebbero con l’ambiente sul quale vivono e meno avrebbero percezione del rischio derivante dall’ambiente stesso. Si attiverebbe sempre la tendenza a percepire solo gli aspetti positivi della propria comunità di appartenenza e dunque del territorio sul quale la comunità si situa. Dunque, l’identificazione uomo/ambiente porterebbe con sé un gap culturale: da un lato attiverebbe il desiderio di attuare meccanismi di difesa del proprio territorio, dall’altro abbasserebbe la percezione di vulnerabilità del territorio stesso.
“Dobbiamo mettere in salvo l’ambiente in cui viviamo, ma cosa potrebbe davvero capitare di tanto tragico a quel luogo che proprio noi abitiamo tutti i giorni?” Eccolo il cortocircuito dominante.
A questo teorema mentale va a sommarsi, a livello psicologico, quella che Martin Seligman, nel 1967, definiva “impotenza appresa”: ovvero, ‘se non sono in grado di mettermi in salvo, non farò nulla, sopporterò il rischio, nella certezza che qualunque possa essere il mio comportamento non sarà risolutivo dell’evento’. L’effetto dell’impotenza appresa è evidentissimo nei luoghi in cui il potere dominante tenderà a celare il pericolo reale, allo scopo di tutelare esclusivamente l’interesse economico o una parte della popolazione presente a discapito di altre (ad esempio al fine di cogliere l’occasione del disastro per confinare in altri luoghi minoranze etniche o religiose, come spesso vediamo accadere nelle aree più difficili del pianeta).
Così, quando il disastro arriva, ecco che viene considerato con stupore e si attiva ciò che in antropologia definiamo spaesamento identitario, ovvero l’evento viene percepito come molto grave e non controllabile all’origine, e questo fa saltare ogni nostro più saldo equilibrio, personale e sociale.
A seguito del disastro non c’è più il nostro ambiente, non ci sono più i simboli attorno ai quali avevamo raccolto un’intera esistenza di significati condivisi con la nostra comunità di appartenenza. Un esempio eclatante è quello dei disastri dovuti all’emergenza climatica in corso. Eppure, ciò che accade è stato troppo a lungo e a torto percepito come qualcosa di non dovuto all’azione dell’uomo, ma imputabile ad un concetto antico di natura matrigna di leopardiana memoria, quindi considerato sia incontrollabile che inarrestabile.
C’è, dunque, una dimensione politica e culturale insieme che si situa in quella cecità che ci impedisce di prevedere il rischio. Troppo a lungo e troppo spesso l’ordine non è stato dato da una progettualità responsabile, ma dalle abitudini consuetudinarie e irresponsabili di molti e dalle esigenze economiche di quei pochi ma forti.