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La catastrofe in Myanmar, l’apertura della faglia di Sagaing e la necessità di ripensare un nuovo Umanesimo green

La faglia di Sagaing, punto di intersezione fra le placche tettoniche indiana ed euroasiatica, potrebbe essere ben più estesa di quanto finora stimato fra i 250 e i 270 km. Lo proverebbe il pesante terremoto di Mw 7.7 che il 28 marzo ha scosso il Myanmar, provocando effetti a distanza ben superiori rispetto a quanto si sarebbe potuto immaginare attraverso i dati scientifici in possesso prima della catastrofe.

Le misurazioni richieste ai satelliti delle missioni europee Sentinel-1 e Sentinel-2, capaci di combinare le registrazioni delle immagini relative alle parti centrali, settentrionali e meridionali della ferita, ci riportano un dato di spostamento lungo la faglia estremamente connotato da ciò che gli scienziati definiscono come ‘incertezze variabili’.
Il sisma è, stato, infatti, il più intenso registrato da decenni in quella zona, di poco inferiore soltanto a quello che sconvolse il Nepal nel 2015, quando la terra nella Valle di Kathmandu tremò per una scossa pari a 7.8.

Mandalay non esiste praticamente più e nella città a più alta densità di popolazione del Myanmar le strade sono state inghiottite, insieme ai ponti e agli edifici, mentre il numero dei morti stimati ha ormai superato di gran lunga le 4000 unità.
La terra ha tremato fino 1200 km di distanza, causando danni registrati anche a Bangkok, la capitale della Thailandia.

L’estensione, dunque, aldilà dell’impatto feroce della scossa, può essere definita senza precedenti nella storia recente, nella quale gli effetti di un sisma sono sempre stati evidenziati come maggiormente localizzati e non così diffusi.

Questa realtà scientifica, a partire dalle recentissime valutazioni sulla faglia di Sagaing, ci impone una presa d’atto della necessità di lavorare anche in maniera formativa e culturale sul concetto di percezione del rischio.
Se l’ampiezza della catastrofe è stimabile nelle centinaia di villaggi completamente spazzati via e se persiste l’incertezza nella valutazione dell’apertura della faglia, non può passare anche stavolta in secondo piano la necessità di ragionare sui rischi in maniera massiccia e globale.

Il fatto che in Myanmar il terremoto sia giunto in un’epoca di difficoltà e di insicurezza molto pesanti – la guerra che devasta il Paese e l’incapacità di accedere a risorse alimentari per tutti ne fa un esempio unico e grave, certamente, con le Nazioni Unite che ci ricordano come già 15 milioni di persone fossero ridotte alla fame prima dell’evento catastrofico – ma tutto ciò non può, però, nascondere l’urgenza di aprire una nuova fase di sensibilizzazione rispetto al modo in cui dovremmo rispondere tutti insieme alla domanda di quest’epoca: Perché non crediamo di essere in pericolo?

Accantoniamo l’idea che il Myanmar, come tanti Paesi fragilissimi nel mondo, siano solamente un esempio sfortunato e apriamo gli occhi sulla scienza e sulla cultura. Lo stereotipo culturalmente dilagante e accecante (l’antropologo indiano Amitav Ghosh ne parlava ne La grande cecità) è il seguente: ci sono Paesi nel mondo dove accadono cose terribili che in altri luoghi non accadrebbero mai.

Riduttivo e pericoloso pensarla così. Pur ammettendo i casi limite, la realtà delle cose è ben differente, pur non essendo chiara a tutti. Viviamo un’epoca di scombussolamenti climatici e senza ombra di dubbio una delle peggiori per le condizioni ambientali e geologiche, oltre che di diseguaglianza sociale della nostra Terra.

Proprio per questi motivi non ci possiamo più permettere di agire secondo un sistema di ragionamento che oscilla fra l’impotenza appresa di Seligman – ovvero la sensazione che qualunque cosa si faccia nulla si salverà – l’aporofobia dilagante – ovvero l’idiosincrasia verso ciò che è fragile e povero – e l’indifferenza come modello di autoconservazione – ovvero, se non accade a me, allora non accadrà mai ai luoghi che abito e non starà a me pensarci.
Una triade di comportamenti e di atteggiamenti che, affiancati dalla tendenza al negazionismo della scienza – ci pone seriamente nelle condizioni di non accorgersi dei rischi che riguardano tutto il pianeta e tutte le comunità che lo abitano, nessuna esclusa.
Va ripensato, invece, alla luce di questi eventi catastrofici, un nuovo paradigma culturale, un nuovo Umanesimo green, al centro del quale porre, non con rassegnazione ma certamente con la responsabilità di ascoltare la scienza, i segnali che la Terra ci sta mandando, allontanando l’idea pericolosissima oltre che disumana che siano solamente i luoghi più fragili del mondo quelli deputati a soffrire per tutti gli altri.

Biografia

Laureata con lode in Scienze antropologiche ed etnologiche all’Università Bicocca di Milano è Antropologa ed Etnografa orientalista e svolge ricerche etnografiche nel contesto geopolitico dell’Asia meridionale e del Sud-Est Asiatico a fianco di Enti di cooperazione internazionale.
In Italia dirige l’Umbria Green Magazine associato all’omonimo Festival e la Scuola Sperimentale di Scrittura Elsa Morante, un progetto itinerante sui territori che fa capo a Libri dell’Arco.
Autrice del romanzo “L’ultimo respiro del sole” (Laurana Editore) è stata insignita del Premio Speciale Fontamara, XXV Premio Internazionale Ignazio Silone 2022 ed è stata Finalista del Premio Demetra per la narrativa green all’Elba Book Festival 2022.
Il suo romanzo è stato registrato anche in versione Audiolibro per Audible Studios con la voce di Lucia Valenti.
Ha pubblicato numerosi saggi, tra i quali: Polvere e sangue a Kathmandu, La strategia del gambero verde e C’è il mare in città (Primiceri Editore, Padova, 2016, 2018, 2019).
Ha, inoltre, tradotto Grandi Classici della letteratura e della saggistica antropologica, tra i quali: Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini di Rousseau, Discorso sul metodo di Cartesio, Trattato sulla tolleranza di Voltaire (Primiceri Editore, Padova, 2019, 2020), Crimine e Costume nella società selvaggia di Malinowski (Morcelliana, 2020), Il piccolo Principe (Libri dell’Arco, 2023).
Attualmente è in libreria con L’Isola di Elsa (Libri dell’Arco), vincitore dell’Omaggio a Elsa del Premio Procida Isola di Arturo Elsa Morante.
Oggi vive in provincia di Pavia, ma ha vissuto a lungo in Nepal, Thailandia, Malesia e Indonesia.
In collaborazione con Enti di cooperazione internazionale, si occupa delle seguenti aree tematiche: Antropologia dei disastri ambientali e ricostruzione identitaria; Antropologia delle religioni e identità politica; Soggettività e diritti umani; Ricostruzione identitaria post colonialismo.
In particolare, ha svolto ricerche antropologiche sul concetto di spaesamento identitario, costruzione culturale del rischio post disastro e sul concetto di resistenza e resilienza delle comunità che hanno subito danni strutturali e sociali. La sua osservazione è sempre rivolta alla relazione che intercorre fra la comunità vittima del disastro e l’identità di luogo.
Dal 2007 lavora principalmente a fianco degli aborigeni Temiar, una minoranza etnica facente parte della grande famiglia degli Orang Asli del Kelantan, Sultanato situato nella Malesia nord-orientale.
Alle sue ricerche sul campo e al suo impegno etnografico a fianco delle popolazioni che operano una vera e propria resistenza ambientale in contesti di fragilità estrema è stato recentemente dedicato un capitolo del saggio “Sfumature di verde” di Paola Turroni (Laurana, 2022).
Madrelingua italiana, parla e scrive anche in giapponese (hiragana, katakana e kanji), francese, inglese, indomalese.

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