
Cop16 a Roma: 200 miliardi di dollari per salvare la biodiversità, ma il 30X30 è ancora lontano
Il monito delle organizzazioni ambientaliste e delle cooperazioni internazionali il giorno dopo l’incontro a Roma di Cop 16, è stato più che netto: dobbiamo fare pace con la natura.
E, per natura, s’intende quell’essere carne e geografia (per dirla con il geografo La Cecla) che connette inscindibilmente le comunità umane dall’habitat naturale che abitano, attraversano e, responsabilmente, dovrebbero decidere di proteggere.
“Pensiamo ad esempio a quanto succede in Amazzonia” ha ricordato con forza Gianluca Catullo, responsabile divisione ‘specie e habitat’ di WWF, fra le trentanove delegazioni firmatarie dell’appello. “Quando si taglia la foresta si perde la capacità di stoccaggio del carbonio da parte del pianeta in maniera sensibile”, ha dichiarato alla stampa, aggiungendo: “Siamo vicini a quelli che gli scienziati chiamano i tipping point, ovvero quei punti critici oltre i quali si fa difficoltà a tornare alle condizioni originali, come stiamo toccando con mano a livello climatico”.
Bisogna intervenire subito, dunque, perché farlo “significa garantire un futuro più roseo alle generazioni che verranno”.
Si è, infatti, raggiunta, nei giorni scorsi, a Roma, un’intesa tra 150 Paesi che hanno votato l’apertura di un fondo destinato alla tutela delle superfici terrestri e marittime del pianeta: si tratta di 200 miliardi di dollari, stanziati grazie al sostegno degli Stati e delle aziende virtuose nel settore della protezione della biodiversità, che verranno utilizzati per salvaguardare gli ecosistemi del pianeta e tutelare le popolazioni indigene e le minoranze etniche.
“Si tratta di un obiettivo essenziale se vogliamo prevenire l’estinzione di decine di migliaia di specie e mantenere i servizi che la natura intatta fornisce, come l’impollinazione, la filtrazione dell’acqua e dell’aria, la difesa dalle tempeste e la prevenzione delle pandemie”, ha affermato. Inger Andersen, direttore esecutivo del Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente. Ha inoltre sottolineato come “i dati di monitoraggio sulle aree protette hanno mostrato che si stavano verificando dei progressi, con il 17,6% della terraferma e l’8,4% dell’oceano sotto una qualche forma di protezione” ma ha anche dichiarato “che era necessario fare molto di più”.
Mentre i leader dei Paesi si sono riuniti a Roma per concludere i negoziati Cop16 per salvare la natura, l’analisi dei piani delle Nazioni condotta da Carbon Brief, un osservatorio sul cambiamento climatico e sulle questioni ambientali, ha scoperto che molti di queste non ci riusciranno.
Oltre la metà si sta impegnando a proteggere meno del 30% del proprio territorio o non sta fissando un obiettivo numerico.
Dei 137 che hanno presentato un piano, 70 (51%) Paesi non includono proposte per proteggere il 30% della loro terra e del loro mare, e 10 di questi non chiariscono se lo faranno o meno. Infine, 61 Paesi devono ancora presentare un piano per raggiungere gli obiettivi.
Eppure, alla fine del 2022, quasi tutti gli Stati avevano firmato un accordo ONU: una sigla prevista ogni dieci anni per fermare la distruzione degli ecosistemi della Terra e che, l’ultima volta, ha proprio incluso un obiettivo principale per proteggere quasi un terzo del pianeta per la biodiversità entro la fine del decennio, ovvero un obiettivo noto come “30 entro il 30”.
Gli scienziati sul panorama internazionale insistono da tempo sul fatto che la protezione debba concentrarsi sulle parti del pianeta con la maggiore biodiversità affinché il parametro di riferimento del 30% sia efficace nel rallentare la perdita di natura.
La prossima conferenza sulla biodiversità, la COP17 si svolgerà nel 2026 a Jerevan, capitale dell’Armenia. Sarà quello il momento per tirare le fila.