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Utopie concrete: verso un futuro sostenibile. Intervista a Karl-Ludwig Schibel

«L’aspetto del paese è bellissimo: immagina un immenso anfiteatro quale soltanto la natura può crearlo. […] Benché vi sia abbondanza di acqua non vi sono paludi perché la terra in pendio scarica nel Tevere l’acqua che ha ricevuto e non assorbito […]; il terreno si innalza così dolcemente e con una pendenza quasi insensibile, che, mentre ti sembra di non essere salito sei già in cima. Alle spalle hai l’Appennino […]. Conosci ora perché io preferisco la mia villa “in Tuscis” a quella di Tuscolo, Tivoli e Preneste». Così Plinio il Giovane scriveva al suo amico Apollinare nel II secolo d.C., decantando la particolarità e il fascino della Valtiberina. A partire dagli anni Ottanta questo luogo è stato scelto come territorio di riferimento per una conversione ecologica, fucina di soluzioni pratiche e applicative e terra di confronto e scambio. Ne abbiamo parlato con il coordinatore dell’Agenzia Fiera delle Utopie concrete, il Dr. Karl-Ludwig Schibel.

Qual è il suo percorso di vita e di studio, il suo cursus honorum in questo campo e quando ha capito che si sarebbe dedicato a queste tematiche? È stato un caso o c’è stata una chiamata?

Non è stato per niente casuale. Ho insegnato più di vent’anni Ecologia sociale all’Università di Francoforte. Nasco come sociologo e in questa disciplina mi occupo della sovrapposizione tra problemi ambientali e problemi sociali. Ogni problema ambientale ha anche un aspetto sociale, mentre non tutti i problemi sociali hanno un aspetto ambientale. In ogni caso, dall’inizio degli anni Settanta in poi, la crisi ecologica è stata al centro del mio pensiero e del mio lavoro.

La nascita della Fiera delle Utopie Concrete, invece, è legata all’impulso di un sindaco illuminato di Città di Castello, Giuseppe Pannacci, che nel 1987 aveva quest’idea ancora vaga di voler fare qualcosa per l’ambiente, ma da bravo politico capiva che gli mancavano le competenze in merito e si rivolse al suo amico giornalista Saverio Tutino (originario di Pieve Santo Stefano e autore dell’archivio diaristico) che lo ha messo in contatto con Alexander Langer. Così, verso la fine del 1987, avvenne l’incontro storico tra Pannacci, l’assessore all’ambiente Bracchini e Langer. È stato Langer a proporre una Fiera delle utopie concrete, riprendendo il concetto del filosofo marxista tedesco Ernst Bloch. Un’utopia concreta: qualcosa che è perfettamente fattibile, ma nessuno lo fa, o quasi nessuno almeno!

Langer poi, nel gennaio del 1988, scrisse una cartolina – questo era il suo modo di comunicare prima di internet e dei social media – a me e ad altre trenta persone con questa frase: nasce qualcosa di carino a Città di Castello, forse hai voglia di farne parte. Certo che ne volevo far parte! Io ero già in Umbria dal 1982, proprio a pochi chilometri di distanza da Città di Castello, ero il co-fondatore di una comunità intenzionale, Utopiaggia, nelle colline dell’Alto Orvietano. Inevitabilmente, pensai che quest’iniziativa che stava per nascere fosse adatta a me. Proporre idee e soluzioni per una conversione ecologica, diffondere informazioni che venivano soprattutto dal Nord Europa e dagli Stati Uniti, e che in Italia non erano affatto conosciute, erano il mio lavoro quotidiano. Il concetto di efficienza energetica in Italia era un affare per esperti. Noi volevamo portare esempi concreti, da toccare e vedere, come il frigorifero che, staccato dalla presa, perde solo un grado di temperatura in ventiquattro ore. Questo è diventato il mio lavoro e in buona parte la mia identità.

Ci racconta la prima edizione delle Utopie Concrete?

La prima edizione si svolse nel 1988, ed ebbe (come anche le edizioni successive) un Comitato Consultivo Europeo di circa trenta persone, figure importanti che si occupavano di conversione ecologica, che aveva il compito di costruire idealmente l’evento. Io e nel primo ciclo Franco Travaglini ricoprimmo il ruolo di coordinatori. Ci vedevamo a Città di Castello, per tre, quattro giorni e lavoravamo sul programma della fiera: non era la creazione di qualche singolo cervello, sicuramente non del mio, ma era la creazione di un gruppo. Abbiamo iniziato dai quattro elementi: acqua, terra, fuoco e aria. Era un approccio di tipo olistico: l’obiettivo non era quello di fermarsi su qualche aspetto tecnico, come, ad esempio, la gestione dei rifiuti, l’uso dei pesticidi in agricoltura e nemmeno realizzare un evento di sola denuncia. Giustamente, c’erano e ci sono tutt’oggi tanti scandali da portare alla luce (inquinamento, polveri sottili, acque freatiche, allevamenti di massa, ecc…). Lo spirito della fiera però è più propositivo, parte dall’esperienza quotidiana delle persone per poi far vedere come si può agire in modo diverso, a casa, al lavoro, nella scuola, in pubblico.

Da poco esiste un Ministero per la Transizione ecologica e ne sono felice, ma non sono convinto del nome perché il concetto di transizione suggerisce un processo graduale che quasi funziona da sé, come il passaggio da fanciullo ad adulto. Invece la conversione ecologica non avviene spontaneamente, ma occorrono soluzioni coraggiose e decise. I nomi sono importanti, transizione è troppo carino, innocuo, stiamo parlando invece di un processo drammatico vista la profondità e gravità della crisi ecologica, come può essere una conversione anche religiosa. Quindi il concetto di Alexander Langer della conversione ecologica mi convince di più perché contiene entrambe le dimensioni, la gradualità e la discontinuità.

Langer, che ha dato l’impulso e che ha seguito la Fiera delle Utopie Concrete fino alla sua morte nel 1995. Era sicuramente la persona centrale dell’iniziativa, fonte di ispirazione e motivazione, ma la Fiera non era semplicemente una sua espressione. Così come io ero più che altro il coordinatore di tante idee e proposte. Il secondo ciclo, Ricerche di fine secolo parlava in due appuntamenti di Ricchezze e povertà e Lavoro e conversione ecologica, due temi ancora oggi molto attuali. Il terzo ciclo, dal 1997 al 2001, riguardava i sensi: Quali sensi per la conversione ecologica e la convivenza. Anche in questo ciclo dei cinque sensi mettevamo esplicitamente insieme la questione ecologica e quella sociale della convivenza. Nell’edizione L’udito e l’ascolto, ad esempio, ascoltavamo la mattina qualche ingegnere del TÜV di Monaco in Baviera sulla mappatura dell’inquinamento acustico in città e il pomeriggio Russel Ally, membro della Commissione per la Verità e la Riconciliazione del Sudafrica che parlava di Ascoltare il nemico.

L’idea è di mettere insieme discorsi tecnici sulla conversione ecologica con gli aspetti sociali e culturali in una visione olistica, che possa coinvolgere tutti gli aspetti della persona e del vivere quotidiano e che possa condurre a vivere meglio.

Questo modo di affrontare la questione ecologica oggi è abbastanza comune, ma al tempo no. La forza innovativa e rivoluzionaria delle Utopie Concrete adesso quasi non si percepisce più perché, per fare un esempio, il concetto di benessere ecologico, al centro della Fiera Ricchezze e Povertà del 1993, oggi è molto diffuso. Nel sito della Fiera potete trovare tutte le varie edizioni.

C’è un’edizione alla quale è particolarmente legato?

Sono tutte figlie mie, non potrei sceglierne una! Quelle in cui mi sono divertito di più e in cui mi identifico maggiormente sono quelle dei primi tre cicli, perché avevamo una posizione particolare nel panorama nazionale: non c’era niente di simile. Stavano nascendo insieme a noi iniziative come Sana a Bologna e più tardi Ecomondo a Rimini che oggi sono mega eventi commerciali, con decine di migliaia di visitatori, ma noi eravamo unici nel portare avanti un discorso ecologico sociale e culturale.

Oggi quali sono le attività attuali dell’Agenzia e come vi siete evoluti?

Oggi la nostra prospettiva è più ristretta e concentrata sull’Alta valle del Tevere. Nonostante la portata rivoluzionaria del nostro intervento sia diminuita, noi continuiamo a guardare all’Alta valle del Tevere, questo territorio tra Pieve Santo Stefano e Umbertide, di mille chilometri quadrati, 80 mila abitanti, un luogo bellissimo, come caso esemplare e dobbiamo chiederci come gestirlo perché abbia un futuro. La crisi ecologica è ormai sotto gli occhi di tutti e bisogna capire come raccogliere le forze per affrontarla: c’è in gioco il futuro dei nostri figli e nipoti. Chi nega l’urgenza lo fa solo perché preferisce fingersi cieco per interessi particolari, inerzia mentale e fisica. È stato deliberato per esempio dal Consiglio Comunale, l’organo più alto della nostra comunità, il Piano urbano di mobilità sostenibile per Città di Castello nel novembre 2019. Noi come Utopie Concrete abbiamo organizzato la partecipazione, proprio mentre il piano era in elaborazione, nella convinzione che il difficile processo di sviluppo di queste forme dolci di spostamento (pedone o bicicletta) e la conseguente riduzione del traffico motorizzato individuale debba avvenire con il coinvolgimento dei cittadini.

Oggi non si tratta soltanto di diffondere il pensiero ecologico, ormai quasi tutti sanno che i rifiuti vanno raccolti in modo separato e che i pesticidi sono cancerogeni. Si tratta invece di portare idee per un futuro sostenibile nella quotidianità delle persone. Quest’anno abbiamo ideato i Dialoghi altotiberini, momenti di confronto tra esperti su determinate pratiche, ma soprattutto occasioni di diffusione di buone pratiche percorribili per configurare un futuro sostenibile. Per esempio, nel primo incontro abbiamo ospitato l’assessore alle attività produttive del Comune di San Giuliano Milanese che ha istituito una piattaforma digitale per i commercianti in alternativa ai big del commercio elettronico. Ci interesserebbe coinvolgere i commercianti di Città di Castello per capire da loro se la considerano una soluzione concreta e realizzabile. Abbiamo chiesto a Enrico Carloni, professore di Diritto amministrativo ed ex assessore del Comune di Città di Castello, come dobbiamo immaginarci un buon governo a livello territoriale, locale. Ascolteremo la proposta di Massimo Mercati di un distretto industriale sostenibile nell’Altotevere.

Le prediche portano a poco, non basta dire cosa si dovrebbe fare, ma occorre presentare esperienze concrete e modalità di rimozione e superamento degli ostacoli e delle barriere incontrate nel percorso. Un modo per creare costellazioni per un futuro sostenibile. Potete trovare il calendario dei vari appuntamenti nel nostro sito.

Per l’Alta valle del Tevere quali sono le emergenze e come coinvolgere in questo processo di conversione ecologica la società civile, unica leva per creare un autentico cambiamento dal basso e non imposto?

Ci sono alcune emergenze, penso alle correlazioni tra le coltivazioni di tabacco e cancro nel nostro territorio. È difficile determinare il nesso di causalità, però la pesante predominanza dell’agricoltura industriale, non solo con il tabacco, ma anche con le nocciole, fa male al suolo e fa male alla salute.

La qualità dell’aria peggiora, particolarmente in inverno, e la mancanza di un trasporto pubblico degno di questo nome costringe all’uso dell’automobile. Quindi anche nella nostra bella valle ci sono problemi ambientali consistenti.

Fondamentale è arrivare ad una cultura ecologica diffusa, perché l’ecologia non si può ordinare dall’alto: le soluzioni ecologiche, proprio per la loro natura, richiedono collaborazione fattiva e convinta. Penso alla convivenza tra pedoni, biciclette e automobili nel centro storico che dipende più dalla sensibilità dei singoli che dal numero di marciapiedi realizzati. Si può certo intervenire anche con sanzioni o multe, come per la raccolta differenziata, ma non si ottengono risultati solo con misure deterrenti.

Rivolgiamo invece lo sguardo alla pandemia: è scoppiata nel periodo “post Greta”, in un momento in cui tutti avevano abbandonato le bottiglie di plastica e l’usa e getta. Poi invece ci siamo ritrovati a dover usare quotidianamente mascherine, guanti in lattice, contenitori usa e getta. Dall’altra parte, siamo stati colpiti dalle immagini di animali che scorrazzavano liberi nelle autostrade o dalla notevole riduzione dell’inquinamento. È vero che la natura ha ripreso il suo posto approfittando dei lockdown?

Un aspetto significativo della crisi ecologica è proprio l’invasione troppo profonda dell’uomo negli spazi naturali che ha alterato spesso gli equilibri.

Sicuramente, come molti virologi hanno affermato, c’è un legame altamente plausibile tra l’invasione degli spazi naturali, l’alterazione degli ecosistemi e la proliferazione di questi virus. L’aumento dei rifiuti in un regime funzionante di riciclaggio è sicuramente gestibile e sostenibile. Bisogna però educare a saper gestire questi rifiuti. Questa pandemia al di là delle terribili conseguenze sanitarie, economiche e sociali, ha dimostrato che si può cambiare in tempi molto brevi, se si vuole veramente. E dobbiamo farlo al più presto per far fronte al cambiamento climatico e alla riduzione della biodiversità. La pandemia ha dimostrato che questo è possibile. Molti sono gli esperti che prevedono che ci saranno sempre più spesso eventi drammatici, crisi di questo tipo che per la loro natura – e non per mancanza di dati – sono imprevedibili.

La non prevedibilità è un nuovo principio della realtà, una radicale incertezza che è difficile accettare anche a livello psicologico.

In questo scenario è possibile ancora intervenire?

Certo, se io non so cosa succederà, mi preparo a possibili eventi: un fiume che esce dal suo letto, piogge che durano settimane, una siccità importante. Di fronte all’impensabile devo rafforzare soprattutto la comunità, la coesione sociale, le forme di solidarietà che rendono possibile affrontare insieme questi scenari imprevedibili.

In parte è un tornare indietro alle forme tradizionali di aiuto e sostegno che c’erano ai tempi dei nostri nonni e che oggi spesso sono scomparse, sostituite da un individualismo che porta a non conoscere nemmeno i condomini.

Esatto, inoltre oggi queste forme di solidarietà potrebbero usufruire delle tecnologie avanzate.

Da insegnante nelle scuole secondarie di primo grado mi chiedo sempre come formare i giovani di oggi, quest’anno per esempio abbiamo calcolato la nostra impronta ecologica o approfondito le modalità di smaltimento dei rifiuti RAEE. Quali potrebbero essere secondo lei altre attività significative per renderli più consapevoli e motivarli, per far capire loro che possono e devono iniziare a cambiare questo mondo?

Se lei mi parla di ragazzi dagli undici ai quattordici anni le posso dire che è già troppo tardi! A me piace molto insegnare e le scuole sono il campo d’azione più importante in assoluto perché superata una certa età diventa difficile intervenire: i comportamenti e i modi di vedere sono già interiorizzati.

Pensi all’idea assurda di tenere tutte le lampadine della propria casa accese (come a dire: consumo di più, spreco energia, perché me lo posso permettere), oppure il fatto di lasciare la temperatura di casa a 22 gradi, o ancora l’idea che l’automobile sia identificativa del tuo status sociale. Il problema è il mondo in cui vivono questi giovani e gli esempi che hanno intorno. Se a scuola si porta un messaggio che è in palese contraddizione con quello che vedono a casa o nell’ambiente che li circonda è difficile creare una cultura ecologica. Si dice che a scuola si debba fare lezioni di ecologia, lezioni per l’inclusione sociale, per la parità di genere, contro il razzismo; sono d’accordo, ma non basta insegnare questi valori: bisogna cambiare il contesto sociale e culturale in cui questi alunni vivono. Dobbiamo guidarli a capire; discutere insieme a loro sugli aspetti del mondo da cambiare, entrare nella loro vita, nei loro desideri, nei loro modi di vedere. Solo così avremo una chance.

Ricordo una lezione che realizzammo in una classe terza del liceo sull’uguaglianza di genere: chiedemmo loro di elaborare un poster su questa tematica, così da farli ragionare in modo autonomo. Organizzammo poi un dibattito e dividemmo chi sosteneva la parità tra i sessi e chi invece ancora sosteneva che le donne fossero maggiormente portate per i lavori domestici e per accudire i figli. Pensi che questo secondo gruppo vinse di gran lunga sull’altro!

Se non cambia qualcosa nella società (finché, ad esempio, nelle posizioni dirigenziali ci saranno sempre nove uomini su dieci) nessuna lezione a scuola potrà incidere nella loro mente. Accade la stessa cosa per l’educazione ambientale: bisogna andare a modificare le abitudini quotidiane delle famiglie, nel mondo produttivo, nelle istituzioni.

 

Cambiare le mentalità, incidere su abitudini e stili di vita, diffondere buone pratiche e soluzioni alle difficoltà che un cammino di conversione inevitabilmente incontrerà. In modo pioneristico Karl-Ludwig Schibel e il gruppo di collaboratori e sostenitori delle Utopie Concrete hanno affrontato problematiche che con il passare degli anni si sono rivelate sempre più urgenti. Nell’affascinante ossimoro della stessa espressione “utopie concrete” sono racchiusi la granitica speranza in un futuro migliore, la strenua volontà di realizzarlo, la determinazione nell’intraprendere una vera rivoluzione copernicana, la caparbietà e anche il coraggio di affrontare critiche e strali, di assumere posizioni in controtendenza. E anche la pazienza, per accompagnare gli scettici verso un orizzonte ideale ma realizzabile di piena sostenibilità. In una prospettiva di incontro, condivisione, diffusione e azione che è l’unica credibile, affascinante e sicuramente vincente.

Biografia

Ilaria Scarabottini è nata a Spoleto (PG) il 14 luglio del 1979, ma vive da sempre a Città di Castello. Dopo una laurea in Conservazione dei beni culturali, inizia il percorso di specializzazione per l’insegnamento, professione che sognava di fare fin da bambina. Da quindici anni è docente di italiano, storia e geografia nelle Scuole secondarie di primo grado. Amante della letteratura e dei romanzi storici, ha pubblicato a febbraio del 2021 il suo primo romanzo “Come Cloto, la sarta della Resistenza”.

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