
Il mito dell’agricoltura. Una lettura de La via selvatica di Adriano Favole
Il dibattito sull’ecologia degli ultimi 15 anni, sia quello più specificatamente politico che quello più teorico è stato fortemente caratterizzato dal tentativo di superare la dicotomia cultura/natura concepita come una separazione concettuale che ha solcato l’occidente dagli esordi della modernità e che ha fortemente connotato il modo di abitare la terra da parte degli umani. A partire dai lavori di Bruno Latour, da quelli di Deleuze, ma soprattutto dal celebre testo di Philippe Descola Par-delà nature et culture è venuta avanti l’idea che tale distinzione sul piano ontologico e concettuale non abbia senso e che “natura” sia un prodotto esclusivamente storico privo di sussistenza ontologica al di là dell’ibrido che si dà attraverso la commistione di questi due poli apparenti. Tali impostazioni hanno direttamente condotto a posizioni come quella di Jason Moore, uno degli autori più mainstream della letteratura politico-ecologica attuale, che sostiene che sia il sistema capitalistico che di fatto produce la natura come concetto e come oggetto. Questo schiacciamento uno sull’altro dei due concetti rischia di produrre un’impasse proprio sul piano della critica ecologica alla società: se non si dà alcuna relazione tra la dimensione della natura e quello della cultura come possiamo guardare criticamente l’agire umano sul pianeta? Un’ontologia piatta come quella di un antropocene che assimila cultura e natura non sottovaluta una serie di mediazioni temporali e materiali che impediscono qualsiasi dialettica? Detto in altro modo, sovrapporre storia e cultura in questo modo non ci consente di guardare alle cause concrete dell’emergenza ambientale e climatica e in questo senso anche il concetto di “capitalocene” introdotto dallo stesso Jason Moore per evitare la critica che la sua sia un’accusa generica all’umanità che tralascia le specifiche modalità produttive che si sono date nella storia, appare debole (quando inizia il capitalismo? Con l’introduzione della macchina a vapore? Con quella della proprietà privata? ecc).
La novità La via selvatica (Laterza, 2024) di Adriano Favole ha il pregio di rifarsi a questo dibattito, ma di portarlo su di un piano differente in grado di non cadere in questo tipo di paradossi. Lo sforzo di Favole, come già avvenuto in altri suoi lavori, pensiamo a Vie di fuga (2018), da una parte è quello di comunicare la sua disciplina, l’antropologia culturale, di divulgarla anche al di fuori dell’ambito strettamente accademico e dall’altro di stare attivamente in una discussione teorica in grado di contribuire ad un confronto politico sui temi urgenti che dividono le società. Anche Favole si rifà direttamente a Philippe Descola raccogliendo la proposta di decostruzione della dicotomia cultura/natura, ma anziché porsi sulla componente oppositiva di quella dualità ne rintraccia una versione processuale, più “fertile” nel confronto tra colto ed incolto. Il dualismo tra incolto/colto in fondo è per Favole una matrice della nostra civiltà ancora più profonda di quello tra cultura e natura. Non a caso alla base della tradizione occidentale ci sta la metafora agricola della coltivazione che definisce la peculiarità umana dell’educazione e quindi della cultura. C’è un luogo topico della civiltà occidentale: si tratta di quel passo delle Diputationes Tuscolanae di Cicerone in cui si compara l’educazione degli uomini ad una coltivazione, attraverso tutte le tecniche agricole, dell’anima. In quell’opposizione tra ciò che è coltivato, istruito e ciò che non lo è, l’incolto ovvero la vita selvaggia, si è definita, attraverso successivi sviluppi, l’impalcatura portante della civiltà occidentale. Ciò che Favole percorre in La via selvatica a partire dalle comunità delle isole dell’Oceania e della Nuova Caledonia che frequenta da anni, ma che ritrova in molte altre comunità umane per il mondo, è una modalità di transito dall’incolto al coltivato; non dunque una opposizione tra polarità, ma un processo ovvero un passaggio. Si tratta di fughe – di cui è esperto Favole – come nel caso dei cosiddetti popoli marons che nell’isola de La Reunion si sono rifugiati nella foresta per fuggire dalla schiavitù oppure della scelta delle famiglie della città di Noumea, capitale della Nuova Caledonia, che abbandonano la città per ritirarsi in piccoli slums nelle campagne circondate dall’incolto.
Adriano Favole mostra come il mondo sia pieno di storie che mostrano come da sempre gli uomini entrano ed escano da modalità di coltivazione della terra e come dunque l’idea della comunità umana che sì è emancipata definitivamente da uno stato di minorità attraverso l’agricoltura sia un mito fondante della nostra cultura. Il mito della fondazione non solo della società contemporanea, ma della Storia è proprio questo salto nella agricoltura intesa come modalità di padroneggiare la terra che l’uomo comincia ad adottare in un dato momento e che secondo il racconto che ci facciamo dilagherebbe in tutto il pianeta – “popoli selvaggi” a parte – consentendo alla specie umana di aggregarsi secondo una modalità che attraverso vari sviluppi è arrivata alla moderna configurazione dello stare insieme (stanzialità, inurbamento, statualità ecc). Non a caso Favole riprende quello splendido libro di Graeber – il suo ultimo – e Wengrow L’alba di tutto per chiedersi se forse noi tutti non siamo vittima di un pregiudizio gigantesco, se non ci raccontiamo la storia di una preistoria o meglio di un passaggio da una nell’altra che non è mai avvenuta perlomeno nel modo che da quando siamo bambini ci sentiamo narrare. L’agricoltura in altre parole ha rappresentato non soltanto una svolta narrativa nel racconto del nostro essere umani, ma anche il fondamento della sovranità e del diritto come meccanismo di regolazione. È il fatto che un terreno sia coltivato che legittima la presa di possesso e che coloro che soltanto vi abitano senza “padroneggiarne” la produzione siano considerati res nullius al pari della selvaggina. Favole evoca una comprensione della legittimità della sovranità moderna fortemente legata alla dimensione agricola. Quando Tocqueville nella Democrazia in America si chiede se non sia la fertilità naturale del territorio americano a rendere possibile la nascita di una società democratica o quando Carl Schmitt nel Nomos della Terra pone l’atto della divisione del terreno da coltivare alla base della sovranità alludono più o meno esplicitamente a questo legame. Ciò spiega quella sorta di profonda avversione delle società occidentali moderne nei confronti dell’incolto per cui ogni “vuoto” in città va “portato a valore”, per cui viviamo come indecoroso ogni sfalcio dell’erba rimandato, per cui riteniamo scandaloso che nelle città si affaccino gli animali dei boschi. Questo contrasto tra il colto e l’incolto ci impedisce di vedere quanto, anche storicamente, l’intervento sulla natura sia differenziato e come tutte le comunità umane in realtà coltivino un rapporto con l’incolto. Chi ha memoria della vita nelle cascine o nelle aziende agricole di pochi anni fa sa che fare “bosco” o andare nel bosco a raccogliere frutti selvatici, funghi o quant’altro è sempre rientrato nella attività ordinaria. Favole, attingendo dai propri viaggi e dalla letteratura antropologica descrive una serie di queste relazioni tra incolto e colto che sono presenti nelle varie comunità in giro per il mondo (Inuit, Kanak, Achuar, ecc) e che prendono la forma di tutela, di sospensione dell’attività produttiva od estrattiva e che consentono alla terra di rigenerarsi e di recuperare fertilità.
La sfida che lancia Favole è, rifacendosi a Gilles Clement, di non voltare lo sguardo dagli incolti che ci circondano, ma che abbiamo condannato ai margini. Quello che il filosofo-architetto francese definisce “terzo paesaggio” che non sono gli spazi governati della città e dell’agricoltura e nemmeno gli spazi incontaminati delle foreste, dei deserti o degli oceani e che sono quegli scampoli di terreno abbandonati, dismessi dove il paesaggio è lasciato libero di fluire e di muoversi come preferisce, tra piante pioniere, gramigne, insetti impollinatori costituisce un serbatoio di biodiversità e di “creatività naturale”. In poche parole in quegli spazi spesso nelle periferie delle città, nelle aree di svincolo delle grandi arterie di comunicazione, la natura è lasciata libera di generare e di vivere lo spazio senza la mano ordinatrice dell’uomo in cui la varietà delle specie, il dinamismo della vita, la bellezza casuale è maggiore rispetto agli spazi governati. Ce ne siamo accorti durante il tempo sospeso della pandemia in cui abbiamo ammirato come la natura si sia riappropriata di spazi che gli erano stati sottratti. Quello sguardo incantato è ritornato ben presto quello disincantato che relega tale vitalità ai margini. E’ una vitalità che rimanda ad una ecologia delle relazioni ovvero a processi vitali in grado di uscire dal governo che abbiamo imposto alla terra funzionalizzandola in modo univoco. Favole mostra come in altre parti del mondo transiti, spaziali e temporali, tra cultura e natura, tra colto ed incolto, siano la consuetudine e come tali passaggi abbiano preso forme diversissime.
Il contributo di La Via Selvatica alla discussione del ruolo dell’agricoltura avviene, forse non a caso, in un momento storico in cui l’agricoltura è al centro di un dibattito pubblico molto acceso. La discussione sulle politiche comunitarie di settore hanno molto spesso tralasciato il fatto che ci sono diverse agricolture le quali hanno esternalità molto diverse e che quindi fare la difesa tout court dell’agricoltura in modo indifferenziato, come tanta parte politica e sindacale hanno fatto, ha poco senso. Ma c’è un’altra questione non meno polemica che sta emergendo con forza e che mette in tensione la prerogativa tradizionale dell’agricoltura: quella di produrre cibo. Se la funzione di alimentare, possibilmente a basso prezzo, una popolazione mondiale in crescita ha costituito la legittimazione dell’agricoltura moderna, soprattutto di quella intensiva, ora quella capacità è insidiata da pratiche e tecnologie che non solo possono fare a meno di una componente ritenuta imprescindibile come la terra (agricoltura idroponica), ma sono proprio altro (produzione del cosiddetto cibo sintetico). Adriano Favole nel suo La via selvatica ci mostra come l’antropologia culturale possa offrire un apporto a questo dibattito che mette al centro l’agricoltura e a come debba essere pensata.