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Dopo la COP29 è possibile un agire comune?

Non basta firmare ambiziosi Green Deal che impegnano le aziende nel profondo cambiamento, se non si dà seguito agli impegni che sono uno strumento in grado di proteggerle dalla concorrenza.
Non solo quelli che se ne vanno dagli accordi sono colpevoli, ma anche chi restando nel quadro di quegli accordi, li disattende.

 

Dopo 29 anni, la diplomazia climatica non è morta, ma il suo stato di salute si è aggravato.
Un testo è stato firmato, gli stati coinvolti hanno accettato in extremis di portare il loro impegno finanziario a 300 miliardi in dieci anni – il New Collective Quantitative Goal (NCQG) – per aiutare i Paesi più poveri ad investire nelle energie rinnovabili con l’obiettivo di mobilitare 1300 miliardi di capitale privato.
Questa cifra ha occupato le principali discussioni delle due settimane di negoziazioni al punto da prendere in ostaggio tutte le altre questioni. Ad eccezione del mercato del carbonio.
Di fatto quello che è stato disatteso è, nella realtà delle cose, l’accordo di Parigi che stabiliva una quota di 100 miliardi all’anno per i Paesi in via di sviluppo a partire proprio dal 2025 in cambio di un loro impegno nella decarbonizzazione.
È vero che l’Accordo di Parigi non specificava né la fonte di questi fondi né la forma in cui avrebbero dovuti essere messi a disposizione. Il sollievo, dunque, di aver chiuso questo interminabile accordo che definire debole e tardivo– avvenuto con le classiche 24 ore di ritardo – è eufemistico ed ha fatto emergere non solo la debolezza della presidenza dell’Azerbaijan che non ha avuto la volontà da subito di far accettare all’Arabia Saudita, la formula “uscita dalle fonti fossili” dal testo finale, ma rappresenta anche la smentita degli impegni presi in precedenza.
Al di là delle dichiarazioni incoraggianti – la barra era stata fissata a 1000 miliardi – il dato più inquietante è che la volontà di agire si sbriciola e ciò che sembra giunta al capolinea è una modalità di approccio politico al tema del Climate Change ovvero quello delle grandi assisi onusiane che vengono caricate di aspettative, ma che non sono in grado di produrre effetti concreti. La constatazione condivisa intorno alla realtà scientifica che richiede lo sforzo di tutti, punto centrale del multilateralismo ambientale nato nella convenzione quadro dell’ONU sul clima, non basta più, se mai è bastato, per raggiungere i cambiamenti necessari. Le vie verso soluzioni praticabili sono strette perché la componente della sovranità dei paesi è uscita allo scoperto.
Si tratta tuttavia di uscire dalla ipocrisia.
L’America di Donald Trump è libera di ritirarsi nuovamente per i prossimi quattro anni dagli accordi di Parigi, come richiesto dalle industrie petrolifere, e, cercando senza imbarazzi di eliminare il maggior numero possibile di vincoli ambientali, potrà decidere di limitare al massimo gli impegni multilaterali.
Allo stesso modo la Cina che attualmente pesa un terzo delle emissioni mondiali per anno può rifiutarsi di entrare nel club dei paesi occidentali che contribuiscono con propri fondi ai Paesi in via di sviluppo. Anche perché quella categorizzazione tra Paesi sviluppati e Paesi in via di sviluppo è del 1992 e vedeva la Cina posizionata con i secondi.
La questione non è solo di chi si ritira dagli accordi, ma di chi non ritirandosi decide di non applicare cosa prevedono: è assolutamente possibile creare barriere verdi, il testo del protocollo di Kyoto prevede penalità finanziarie per tonnellata di Co2 per tutti i superamenti di quota.
Per provare a ricreare una volontà di azione comune va preso atto di ciò che è cambiato sullo scacchiere mondiale e va dato seguito a quello che si è deciso.
La decisione di Arcelor Mittal di rallentare gli investimenti di 1,8 miliardi per decarbonizzare le produzioni di acciaio nell’altoforno più grande d’Europa, quello di Dunkerque, annunciato guarda caso il giorno dopo gli accordi Baku, deve suonare come un monito ai leader europei.

Biografia

Mi sono laureato in filosofia a Torino, ho conseguito un dottorato in filosofia ed ho svolto attività di ricerca in università italiane e straniere.

Sono stato deputato della Repubblica per 3 legislature nelle quali mi sono occupato di agricoltura ed ambiente in particolare di Agricoltura sociale, di Agricoltura biologica, spreco alimentare e di alcune filiere produttive

Ora ho una società che si occupa di agricoltura e ambiente.

Recentemente ho pubblicato Decarbonizzare la democrazia che è un testo che interroga il nostro sistema politico istituzionale alla luce delle fonti energetiche che ne hanno consentito lo sviluppo. Collaboro con diverse testate giornalistiche (Agricolae, AGEEI e Avvenire Agricolo).

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