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Trent’anni senza Alexander Langer. Il sogno ecologico che attende ancora il nostro desiderio.

A trent’anni dalla scomparsa di Alexander Langer, ci pare necessario riprendere i suoi scritti e ripensare al padre del concetto di ‘conversione ecologica’ nei termini che oggi si rivelano di un’attualità più forte che mai. Figura atipica e profetica del panorama politico europeo, Langer è stato ecologista, pacifista, mediatore nei conflitti, intellettuale inquieto e militante del possibile. Tra le sue tante riflessioni, una in particolare sembra contenere la chiave di una delle sfide cruciali del nostro tempo:

“La conversione ecologica potrà affermarsi solo se apparirà socialmente desiderabile, capace cioè di offrire una prospettiva di miglioramento della qualità della vita, di giustizia sociale, di occupazione, di salute, di convivenza, di democrazia.”

(“Dieci punti per la conversione ecologica”, in “Alexander Langer. Il viaggiatore leggero. Scritti 1961–1995”, a cura di Marco Boato, Edizioni Sellerio, Palermo, 1996, p. 331).

Non è una frase da intellettuale. È una diagnosi. Una provocazione. E un monito.

A Langer non bastava discutere genericamente di sviluppo sostenibile, perché ne aveva il timore di un calderone nel quale avrebbero potuto sobbollire i peggiori escamotage. Ed anche perché, come pensiamo noi di Umbria Green Magazine, senza la Cultura, senza una trasformazione della coscienza individuale che possa seriamente avanzare connessioni reali con tutte le forme che abitano questo nostro bistrattato Pianeta, nulla potrebbe mai invertire la rotta.

Oggi, mentre il mondo affronta crisi climatiche sempre più drammatiche, mentre si moltiplicano gli allarmi della scienza e le promesse della politica, resta aperta una domanda di fondo: perché, nonostante tutto, continuiamo a faticare nel cambiare realmente rotta? Perché l’ecologia, pur presente in ogni agenda e dibattito, resta percepita da molti come un sacrificio, una rinuncia o, peggio ancora, un’imposizione?

Langer aveva capito che la vera sfida ecologica non è solo tecnica o tecnologica, ma culturale e spirituale. Una transizione che non conquista l’immaginario collettivo, che non diventa desiderabile nel quotidiano della gente, è destinata a restare incompiuta, quando non apertamente respinta.

È ciò che vediamo accadere oggi: rigetti populisti, negazionismo dei cambiamenti climatici, resistenze sociali alle variazioni nei consumi e negli stili di vita, reazioni identitarie contro una presunta élite verde.

Eppure, desiderare un mondo più vivibile, più giusto, più lento, più solidale — era questo il sogno di Langer — non dovrebbe essere un lusso per pochi, ma una speranza condivisa. Non una crociata morale, ma una proposta di felicità diversa.

Per questo motivo lui coniò il concetto di “conversione ecologica” pensandola come un processo lento, empatico, inclusivo. Un cammino che non può essere calato dall’alto, ma accompagnato, raccontato, reso umano.

Tre decenni dopo la sua morte, la voce di Langer ci chiede: siamo riusciti a rendere la transizione ecologica qualcosa che le persone possano sognare?

Se la risposta è ancora “no”, allora diventa urgente riattivare quel pensiero. Non basta cambiare le leggi. Occorre costruire una coscienza collettiva e, per farlo, bisogna rendere l’ecologia bella, accessibile, partecipata, non soltanto necessaria, ma proprio desiderabile.

Forse, il miglior modo per ricordare Alexander Langer oggi non è, quindi, soltanto quello di commemorarne l’eredità, ma proprio quello di provare finalmente a desiderare ciò che lui aveva già visto con tanta chiarezza.

Oggi, nel pieno di una crisi climatica che non è più futura ma presente, nel tempo dei “record” meteorologici che non smettono di stupire (e che un certo negazionismo insiste nell’azione scellerata di sottrarre alle nostre responsabilità), ci troviamo di fronte a un paradosso: sappiamo cosa dovremmo fare, ma non riusciamo a farlo insieme. Perché la transizione è ancora percepita da molti come una minaccia: alla propria routine, al proprio lavoro, al proprio benessere. E questo – lo diceva già Langer – è il vero ostacolo.

Langer ci insegnava che le conversioni ecologiche non si impongono, si accompagnano. Non si vincono con i numeri, ma con la fiducia. Non si costruiscono contro qualcuno, ma con tutti. E soprattutto: nessuna transizione può dirsi “giusta” se lascia indietro i più fragili.

Ci obbliga a un ambientalismo meno moralista e più conviviale. Meno “contro” e più “con”. Che non rinunci alla radicalità delle proposte, ma sappia parlare alle vite reali, ai desideri veri delle persone.

Forse è questo il compito che ci lascia, trent’anni dopo: non convincere, ma ispirare. Non accusare, ma includere. Non spaventare, ma far sognare.

Finché la transizione ecologica non sarà socialmente desiderabile, quindi, resterà fragile. Quando invece sapremo renderla desiderata — come un futuro migliore, più giusto e più felice — allora sì, sarà davvero possibile.

Alexander Langer ci ha indicato la via. Tocca a noi, oggi, continuare il cammino, ripartendo dai suoi scritti.

Biografia

Laureata con lode in Scienze antropologiche ed etnologiche all’Università Bicocca di Milano è Antropologa ed Etnografa orientalista e svolge ricerche etnografiche nel contesto geopolitico dell’Asia meridionale e del Sud-Est Asiatico a fianco di Enti di cooperazione internazionale.
In Italia dirige l’Umbria Green Magazine associato all’omonimo Festival e la Scuola Sperimentale di Scrittura Elsa Morante, un progetto itinerante sui territori che fa capo a Libri dell’Arco.
Autrice del romanzo “L’ultimo respiro del sole” (Laurana Editore) è stata insignita del Premio Speciale Fontamara, XXV Premio Internazionale Ignazio Silone 2022 ed è stata Finalista del Premio Demetra per la narrativa green all’Elba Book Festival 2022.
Il suo romanzo è stato registrato anche in versione Audiolibro per Audible Studios con la voce di Lucia Valenti.
Ha pubblicato numerosi saggi, tra i quali: Polvere e sangue a Kathmandu, La strategia del gambero verde e C’è il mare in città (Primiceri Editore, Padova, 2016, 2018, 2019).
Ha, inoltre, tradotto Grandi Classici della letteratura e della saggistica antropologica, tra i quali: Discorso sull’origine della disuguaglianza tra gli uomini di Rousseau, Discorso sul metodo di Cartesio, Trattato sulla tolleranza di Voltaire (Primiceri Editore, Padova, 2019, 2020), Crimine e Costume nella società selvaggia di Malinowski (Morcelliana, 2020), Il piccolo Principe (Libri dell’Arco, 2023).
Attualmente è in libreria con L’Isola di Elsa (Libri dell’Arco), vincitore dell’Omaggio a Elsa del Premio Procida Isola di Arturo Elsa Morante.
Oggi vive in provincia di Pavia, ma ha vissuto a lungo in Nepal, Thailandia, Malesia e Indonesia.
In collaborazione con Enti di cooperazione internazionale, si occupa delle seguenti aree tematiche: Antropologia dei disastri ambientali e ricostruzione identitaria; Antropologia delle religioni e identità politica; Soggettività e diritti umani; Ricostruzione identitaria post colonialismo.
In particolare, ha svolto ricerche antropologiche sul concetto di spaesamento identitario, costruzione culturale del rischio post disastro e sul concetto di resistenza e resilienza delle comunità che hanno subito danni strutturali e sociali. La sua osservazione è sempre rivolta alla relazione che intercorre fra la comunità vittima del disastro e l’identità di luogo.
Dal 2007 lavora principalmente a fianco degli aborigeni Temiar, una minoranza etnica facente parte della grande famiglia degli Orang Asli del Kelantan, Sultanato situato nella Malesia nord-orientale.
Alle sue ricerche sul campo e al suo impegno etnografico a fianco delle popolazioni che operano una vera e propria resistenza ambientale in contesti di fragilità estrema è stato recentemente dedicato un capitolo del saggio “Sfumature di verde” di Paola Turroni (Laurana, 2022).
Madrelingua italiana, parla e scrive anche in giapponese (hiragana, katakana e kanji), francese, inglese, indomalese.

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