Follow us on social

Umbria Green Magazine

  /  Libri e Dintorni   /  DIO O IL SOLE di Marisa Zepparelli – Capitolo II

DIO O IL SOLE di Marisa Zepparelli – Capitolo II

VAI AL CAPITOLO I

 

CAPITOLO II
GALLINE E RANOCCHIE

Mara, la mattina dopo, salta dal letto per andare dalla nonna che ha promesso cioccolata. Non capisce come abbia potuto, alle dieci di sera, annunciare cioccolata per il mattino presto, senza il tempo di andare alla bottega.

Ma allora, quando dici che non c’è, è una bugia?

La nonna non aveva risposto.

Mara, fuori del letto con tutto il corpo e non ancora però con la testa, giunge in cucina a faccia lieta, sebbene l’ovatta dei pensieri le dia l’impressione di non esser tutta lì.

Sulla soglia vede il suo posto diligentemente apparecchiato e resti di briciole sulla destra – la colazione della nonna – nemmeno uno strofinaccio per terra, né stracci sfrangiati a cavallo del rubinetto, nessun piatto e bicchiere sporco, il focolare perfettamente chiuso, il ferro da stiro al suo posto e non sopra la mensola verde della cappa, che sempre crolla sui piedi. Una volta con grandi strilli era piombato sulla testa della nonna che si scaldava.

Però la botola accanto al tavolo è aperta e poggia contro il muro.

Scendi un attimo – chiede la nonna.

Mara scende, ma subito bloccata dalla vertiginosa pendenza, gira la testa verso le zampe delle sedie. Dopo tre respiri fondi, continua a calarsi per dieci scalini.

Patate anche quaggiù. Dove le porto?

Posale sulla madia.

Pesano le patate!

Al penultimo scalino, Mara depone il cesto sul pavimento della cucina.

Mangia! Voglio vedere se oggi fai storie – dice poco dopo la nonna.

Finita la colazione, Mara si mette alla finestra nella camera di papà, verso il sole che ancora non si vede, per via degli edifici aguzzi della fornace. Aspetta il sole.

Quella è l’unica finestra libera dai fiori, fatta eccezione per la stanza del fratello, che però dorme.

Ma aspettare il sole è una noia incredibile! Avverte piccoli cambiamenti nei colori delle tegole e nel movimento delle ombre sul piazzale, ma non riesce ad esserne contenta. Le sembra di fare la morta appoggiata alla finestra.

Gli operai escono dai forni con la piattina carica e non pronunciano sillaba perché la fatica toglie il fiato. Accanto alle pile dei mattoni, quegli esseri svelti e seminudi sono l’anima del piazzale. Non si riesce a capire come abbiano imparato quel mestiere di infaticabili formiche. Ma qualche volta la piattina si rovescia con grande fragore, cento crolli uno sopra l’altro. Incredibile quanti mattoni muoiono in un secondo che nemmeno hanno finito di spezzarsi. A quel punto gli operai vanno giù pesanti coi nomignoli all’Altissimo. Occhio per occhio. E se arriva il padrone, aggiustano anche lui. Ma il padrone non arriva mai, o manda il caporale, uomo sempre corto, dal collo insaccato e il sedere moscio.

Il sole non si vede ancora, benché i tetti siano più accesi, perciò Mara accosta le persiane e va a svegliare il fratello che dorme nella stanza accanto.

Accecata dalla luce del mattino, Mara in principio non vede un accidente in quella camera. Se già non sapesse che il letto è in fondo e il tavolo lungo la finestra, rimarrebbe sulla soglia come un bamboccio.

Carlo?…. Oh… svegliati!

Il fratello si gira verso il muro.

È pronta la cioccolata, dai, sbrigati ché la nonna parte!

Nessun suono dal fondo della camera.

Perché – spiega Mara avvicinandosi – va da Massimino con le patate, e dopo passa alla bottega… e se passa tardi, non fa in tempo per il pranzo…

Arrivata a un passo, il fratello esce dal letto come un mostro da una pozza e le sferra un pugno.

Ahia! Somaro delinquente!… Nonna!… Ahia, oddio!

La furia le moltiplica la forza e comincia a dar manate a casaccio, e sotto una manata incontra la faccia di quel traditore, che però tenta di scardinarla dai calcagni.

Te l’ho detto ieri! – grida il traditore – Mi sveglio da me, rompibudelli! Ché tu… Vien qua che ti spezzo!… Devi svegliare qualcuno sempre!… Ahia!… Imbecille rompibudelli, seccaccia che perde il treno!… Ahia!… Tieni… Oh! Te lo meriti… vaffanculo!

Mara piange accorata all’arrivo della nonna e il fratello, conoscendo le mosse imprevedibili della vegliarda e trovandosi con le spalle al muro, fa per squagliarsela ma, saltando al di là delle femmine, un lembo di lenzuolo lo fa stramazzare. Degna punizione del somaro, pensa Mara, che mai era riuscita a farlo piangere in quel modo, il poppante, sicché la nonna non sa dove mettere le mani.

Ci vuole mezz’ora per sistemare tutte le lacrime e lavare tutte le facce, tirar fuori ancora cioccolata – un altro po’ a Mara – rassettare, raccomandarsi contro risse in sua assenza mortali.

Se tu non venivi, non succedeva – dice Carlo.

Però so’ le nove. E quando vai al fiume?

Intanto mi lavo.

Mara coi sandali e la maglietta corta va fuori sotto l’ombra. Lì dove la strada fa la curva e si nasconde dietro al pollaio, zia Anna bada a governare le bestie:

Coooococococo!… Cooococococooo!

Undici galline e un gallo, dodici se una non gliel’avesse ammazzata il treno la settimana prima. Tre galline marrone, secondo Mara le più sceme, perché l’occhio affoga in quel colore; quattro bianche e ciccione, ma la zia insiste a dire che pesano quanto le altre; due nocciola, una spelacchiata sulla testa e l’ultima grigiastra. Bestie curiose: si fanno ammazzare per scoprire cosa brilla in mezzo al cespuglio dall’altra parte della ferrovia e beccano i recipienti di latta di Primo, che sbattono contro il telaio della bicicletta, con i quali porta il latte. A seconda di quanto ne producono le mucche, Primo decide se allungarlo o no. Quello lungo è per i clienti della strada lungo la ferrovia e pende al fianco sinistro della bicicletta. Mai cambiare posto ai recipienti.

Il gallo sa quanto le sue galline siano idiote e perciò sta in allerta; si è ficcato in testa che quel pezzo di strada è il suo e lo difende col becco e gli artigli.

Zia Anna, scoppiettante e compunta, Mara non l’ha mai vista bella, e magari lo è: ha un suo modo di conservar profumo anche tra le galline. Di lei le riesce intollerabile la difesa a oltranza del figlio, quel gingillone cordiale il cui riso è un focherello. Puntualmente ogni Venerdì Santo – pare che Mara lo faccia apposta – salta con lei nella saletta, sui letti addirittura, ai ritmi della radio e la zia sbraita per la scelta infelice del giorno e quelle ore durante le quali il figlio è fuori del suo controllo.

La domenica la zia gongola di soddisfazione, perché la messa e il canto, sotto la luce azzurra delle vetrate, la mandano in visibilio, le inumidiscono gli occhi e le ascelle, la linea delle carnose labbra, in tutto eguali a quelle del biondo fratello rubacuori:

Cantare in chiesa è una bellezza! Mi si scioglie lo stomaco!

Una mattina funesta, a gennaio di quello stesso anno, la zia ha trovato il gallo a zampe all’aria e il marito, un omone lento e assorto, è uscito con una sopracciglia sollevata, a guardare in faccia la disgrazia, visto che non se ne poteva fare a meno.

Il gallo è morto, morto! Guarda!

Chissà chi l’ha ammazzato.

Chi?! Sempre quello!

I galli non mi piacciono.

E senza gallo, lungo la strada quante galline cresci?

Se ne compri un altro, cambia colore.

Era forte come un guerriero! Mi faceva una festa ch’era uno spettacolo….

Sto scroccone!

Due giorni dopo zia Anna ha fermato Primo e così l’ha apostrofato:

Il mio gallo è morto… lo sapevate?

L’uomo, già serio, s’è fatto ancor più serio per solidarietà verso la vedova, e ha risposto di no.

L’ho trovato a gambe all’aria ieri mattina… Chi è passato due giorni fa verso sera?

Non lo so.

È il terzo che m’ammazzano, il terzo!

Gli avrà fatto male qualcosa, signora.

Lo so io: una sassata!

A notte?

Quasi a notte. Potente.

Però il vostro gallo non era un santo.

Il gallo… Era un gallo, un gallo!

La strada era la sua?

Zia Anna s’è fatta viola e ha portato le mani alla testa, correndo in casa a soffocare i singhiozzi.

Una settimana dopo c’era un gallo nuovo intorno alle galline, il quarto, che non era pratico del posto. Per una mesata le coche si sono divertite a far di testa loro, davanti a quel maschio spaesato.

Finalmente Carlo esce dal portone e la guarda di traverso, come a dire, mi trovo sempre ‘sta secca in mezzo ai piedi, e però anche con un quarto d’occhio benevolo, a causa della caduta rovinosa. Il dolore ha sempre il potere di rammentargli la fragilità della carne.

La cioccolata l’hai capita?

L’ha riportata papà.

E quando?

Iersera tardi.

Può darsi l’ha vinta a carte.

O ci voleva fare un regalo.

I fratelli si avviano coi secchi verso il fiume, per la strada infossata tra il terrapieno della ferrovia e la recinzione delle fornaci. A metà sulla sinistra, s’apre un ponte oltre il quale si trovano i campi e un prato grande che a marzo si riempie di margherite. In mezzo al grano fioriscono papaveri e fiordalisi, belli come un fascio di mani azzurre. Se uno si abbassa fino alle zolle, il cielo si capisce meglio e viene in mente che le creature siano tanti fiordalisi che tentano di alzarsi fin lassù.

Il fratello gira la testa verso il ponte, per dire:

Sotto Santa Maria abbiamo un nascondiglio…

Chi?

Io, Enzo e gli altri. Puoi venirci, lunedì.

Fatto di canne?

No, è una grotta con la faccia di mattoni, forte e profonda. Alla fine della prima stanza, abbiamo scoperto un budello che porta a un’altra stanza. Di sera è bella, con la torcia che balla tra le foglie… È come un’isola.

Ecco dove scompari! La nonna ieri diceva: l’avrà ingoiato la terra!

Passati trecento metri, comincia il ponte a quattro arcate, sotto le quali scorre il fiume, e in una pozza sulla riva destra c’è la casa delle ranocchie. Basta avvicinarsi lentamente, badando a non specchiarsi, che si intravedono le bestie uscire ed entrare dagli anfratti. Le mani fulminee intervengono dopo che l’occhio ha studiato i ritmi delle prede.

Sulle prime pare che in acqua non ci sia un animale: stagna di un verde marcio lungo le cannette che un poco si muovono. Sul fondo, pietroni coperti d’una patina verdastra e alghe lunghe.

Un fischio dall’altra parte del ponte annuncia il passaggio di un contadino accompagnato dal cane, e più lontano, si intravede una coppia di buoi davanti a un biroccio carico di cassette.

Poi scende il silenzio come una coperta che passa sul fiume, e anche il tempo scorre lento, d’accordo con l’acqua che se la prende comoda.

Mara e Carlo conoscono il comportamento delle rane, che per un nulla spariscono sotto le canne e gli anfratti subacquei, perciò attendono con la pazienza necessaria, protetti dall’ombra del salice.

Il secchio è pronto, riempito d’acqua per metà e munito di una reticella. Dopo la pesca, Carlo e Mara si divertono a osservare le bestie che sguazzano all’interno di quello spazio angusto, tentando fughe, sbattendo la testa e calmandosi come fosse passata una voce. La più ardita prova l’ultimo salto per tornare alla pozza o morire e spesso succede che tornino.

L’agitazione di Carlo fa intendere a Mara che il secchio deve stare a portata di mano.

Silenzio, sopra e sotto l’acqua.

Quando Carlo si lancia, Mara ha una stretta allo stomaco, e invece, quando è lei a guidare, qualcosa all’interno comincia a ballare: la sua, infatti, non è una cattura per la morte, ma un gioco di cattura, anche se le ranocchie non lo sanno.

Carlo esce dal fiume con due ranocchie lucide alle mani:

Visto?… So’ grasse!

Appese alle mani, le ranocchie provano a liberarsi dalla presa cicciona di non so chi e una volta nel secchio riprendono fiato, prima dell’esplorazione che ne seguirà.

Adesso io.

Mara ha un suo modo, criticabilissimo, di catturare le bestie: scende coi piedi nell’acqua e si mette paziente a fare l’albero contro la piccola corrente.

Ci vuole di più, testarda!

Alle caviglie sente il solletico delle alghe e sotto i piedi una patina morbida e scivolosa. Aspetta.

Domani!

L’acqua poco lontano gioca in un mulinello oltre i pietroni del guado e sembra perdere la strada. Piccoli pesci d’argento le passano a un palmo e code di alghe tentano di ghermirla. L’acqua ha la sua maniera di trasformare le cose ed è vero che costituisce un mondo a parte.

Esci, so’ stufo!

Mara insiste a rimanere ferma e se la gode a fare la pianta che tra un po’, tutt’intorno, nessuno giura, né pesci né cristiani, che prima non c’era.

Eccola, eccola, l’ho presa… presa! Tu non ci credi mai!

È grossa anche questa e nel secchio sguazza in mezzo alle altre che ormai la sanno lunga e stanno ferme a tentare la sorpresa.

La pesca, ora Carlo ora la sorella – e Carlo è della terra e Mara dell’acqua – continua fin quasi a mezzogiorno, intervallata da canzonature e finte lacrime all’indirizzo di quegli esseri prigionieri. Anche pesci minimi sono finiti nel secchio, perché Carlo non butta mai niente.

Quando ormai non si vede ombra di ranocchia – gli animali non sono stupidi e si sanno regolare – lui si adatta a catturare pesciolini d’argento, da sotto i sassi li tira fuori che paiono tutt’occhi e chiedono pietà. Si ritroveranno con un secchio pieno d’occhi, più le rane che anch’esse, finite le forze, estroflettono al massimo quei globi ridicoli in cima alla testa.

Andiamo?

E le bestie? – chiede Mara.

Vengono con noi.

No!

Sempre la stessa storia: lei vuole liberare le bestie e Carlo no. Ma stavolta la discussione dura poco, perché Mara lancia la sua ranocchia nell’acqua – chissà se è davvero la sua? – e si avvia per la strada di terra, lasciando il fratello a cavarsela col secchio pieno.

Pallino le corre incontro e pare intenzionato a darle man forte, ma arrivato al traguardo dei piedi, la annusa un istante per correre da Carlo. Con lui c’è da divertirsi.

Articoli simili

You don't have permission to register