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Carbon-grabbing. Nuovo saccheggio in Africa?

L’Africa è forse sull’orlo di un nuovo giro di accaparramento di terre, non per garantire l’approvvigionamento alimentare di paesi terzi, come è stato a partire dai primi anni 2000, ma per produrre crediti di carbonio per compensare le emissioni dei principali paesi inquinanti o delle aziende impegnate a raggiungere la neutralità del carbonio entro il 2050. Questo fenomeno è stato espresso dal presidente della Banca africana di sviluppo (AfDB), Akin-wumi Adesina, la cui istituzione è fortemente impegnata a verificare e contrastare le ricadute del mercato dei crediti carbonio sul continente. A Baku, in occasione della COP29 sui cambiamenti climatici alla fine di novembre, l’ex ministro nigeriano dell’Agricoltura ha deplorato il fatto che “diversi Paesi stiano abbandonando intere parti del loro territorio per crediti venduti a un prezzo inferiore al loro valore, e con essi la loro sicurezza e la possibilità di utilizzarli per raggiungere i propri obiettivi cumulativi”. “Questo è ciò che chiamo “grabbing”, ha denunciato, prendendo in prestito per l’occasione il vocabolario degli attivisti per i diritti umani. I contratti di concessione annunciati alla fine del 2023 dalla società emiratina Blue Carbon LLC rimangono i più spettacolari fino ad oggi: 1 milione di ettari in Liberia, 8 milioni di ettari in Zambia, l’equivalente del 10% della superficie nazionale di ciascun paese, 7,5 in Zimbabwe (20% della superficie nazionale). Pochi dettagli sono filtrati sul contenuto degli accordi.

Ha osservato Gareth Philips, responsabile senior nella divisione sui cambiamenti climatici e sulla crescita Green della AfBD, che “prima di impegnarsi in tali cessioni, i governi devono assicurarsi che le persone che vivono sulla terra siano protette, che non vengano privati dei loro mezzi di sostentamento. I processi di consultazione richiedono tempo e la velocità con cui questi accordi sono stati firmati suggerisce che non sono stati portati a termine in modo soddisfacente. Ciò dimostra una pressione crescente sulle terre, poiché si tratta di beni destinati ad aumentare di valore. Più ci avviciniamo al 2050, maggiore sarà la richiesta di crediti di carbonio da progetti di piantagione e di protezione delle foreste”.

Uno studio pubblicato dal Melbourne Climate Futures nel 2023 mostra che i Paesi stanno privilegiando la piantumazione di alberi rispetto alla protezione, al ripristino e alla gestione sostenibile delle foreste in piedi, nonostante i piani nazionali per il carbonio richiedano una superficie quattro volte più grande dell’India. Lo studio mostra che per raggiungere gli obiettivi dell’Accordo di Parigi e i contributi nazionali specifici (NDC), i Paesi hanno bisogno collettivamente di 1,2 miliardi di ettari di terra disponibile. Tuttavia, i Paesi intendono utilizzare 633 milioni di ettari della superficie totale per attività come la piantumazione di alberi, sottraendo terreni disperatamente necessari per la produzione alimentare e la protezione della natura. Solo 551 milioni di ettari sono destinati al restauro. Non è possibile raggiungere tutti gli obiettivi dell’Accordo di Parigi facendo affidamento principalmente sul cambiamento di destinazione d’uso dei terreni e sul ripristino. Forse i piani climatici più problematici in tutti i Paesi sono quelli che prevedono la trasformazione di terreni attualmente utilizzati per altri scopi, tra cui la produzione di cibo, in piantagioni monocolturali di alberi. Questi cambiamenti invaderebbero le terre possedute e gestite dalle popolazioni indigene e dalle comunità locali. Il rapporto mostra che non è troppo tardi per ripensare a come utilizzare la terra per raggiungere gli obiettivi climatici, tuttavia il rischio è che i paesi sviluppati rimandino la loro uscita dal fossile e che ciò sia compensato da un’irrealistica previsione sui dati di sequestro di carbonio a cui si punta danneggiando mezzi di sostentamento, diritti fondiari e produzioni alimentari.

Paesi come Corea del Sud, Giappone, Svizzera o Singapore hanno già annunciato che parte determinante delle loro quote di attenuazione dal fossile è costituita da acquisto di crediti internazionali e gli accordi che sono stati firmati riguardano paesi in via di sviluppo come Ghana, Kenya, Mozambico; Nigeria; Senegal e Zambia. L’accordo sul clima di Parigi prevede lo scambio di emissioni di CO tra i Paesi nell’ambito dei mercati del carbonio, le cui regole sono state perfeziona a Baku. In particolare, queste regole prevedono che queste transazioni siano correttamente registrate nei bilanci nazionali al fine di eliminare il doppio conteggio che porterebbe a una sopravvalutazione dei progressi compiuti nel contenere l’aumento della temperatura media. Lo stato che vende le proprie riduzioni di emissioni, non può includerle nei propri risultati. Per un Paese industrializzato, o per un’azienda impegnata a raggiungere la neutralità di carbonio entro il 2050, può essere più facile e soprattutto meno costoso delocalizzare parte delle proprie emissioni di carbonio. Questa è l’altra forte argomentazione addotta da Adesina per denunciare l’accapparamento a basso prezzo del carbonio africano che in Europa è elevato e raggiunge, a causa dei sistemi di quote, un valore che può aggirarsi tra i 190 e i 200 dollari a tonnellata, in Africa il valore può variare dai 5 a i 10 dollari a tonnellata.

I Paesi del Bacino del Congo, le cui foreste pluviali tropicali sequestrano un quarto delle auto forestali del mondo, reclamano in aggiustamento dei prezzi. “Le nostre foreste contribuiscono a salvare l’umanità. Non c’è motivo per cui il carbonio catturato europeo debba costare di più”, ha dichiarato il ministro dell’Ambiente della Repubblica Democratica del Congo, Eve Bazaiba. Da un punto di vista climatico, Baizaba ha ragione: ogni tonnellata di carbonio ha lo stesso impatto sull’atmosfera. Ma questa non è la legge dei mercati. I mercati del carbonio istituiti dalla UE, dalla California, dalla Nuova Zelanda e dalla Cina, per fare solo alcuni esempi, non sono connessi fra loro. Hanno loro regole elaborati in base ai loro obiettivi. Il mercato europeo, che non copre il settore forestale, si rivolge alle aziende elettriche e ai settori industriali ad alta intensità energetica assegnando loro quote di emissione. I prezzi elevati costituiscono una forte pressione per i produttori ad adottare tecnologie meno inquinanti. Avere un prezzo globale del carbonio significherebbe avere un unico mercato, con un unico regolatore.

I crediti provenienti dai paesi amazzonici o dai paesi della foresta africana sono gli strumenti di compensazione a basso costo migliori. Recentemente, un certo numero di ricerche hanno dimostrato che a causa di una mancanza di controllo o di ipotesi errate, le riduzioni di emissioni promesse non sono state ottenute. Gli scandali hanno portato a un inasprimento dei criteri per gli standard privati utilizzati per certificare i progetti forestali. Le regole adottate a Baku dovrebbero anche avere un effetto di protezione migliore delle foreste tropicali. Nel frattempo, prima della loro adozione, una tonnellata di carbonio forestale africano viene scambiata a 9-11 dollari su contratti a termine di cinque anni.

 

Biografia

Mi sono laureato in filosofia a Torino, ho conseguito un dottorato in filosofia ed ho svolto attività di ricerca in università italiane e straniere.

Sono stato deputato della Repubblica per 3 legislature nelle quali mi sono occupato di agricoltura ed ambiente in particolare di Agricoltura sociale, di Agricoltura biologica, spreco alimentare e di alcune filiere produttive

Ora ho una società che si occupa di agricoltura e ambiente.

Recentemente ho pubblicato Decarbonizzare la democrazia che è un testo che interroga il nostro sistema politico istituzionale alla luce delle fonti energetiche che ne hanno consentito lo sviluppo. Collaboro con diverse testate giornalistiche (Agricolae, AGEEI e Avvenire Agricolo).

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